LETTERA APOSTOLICA DI PAPA FRANCESCO PER DANTE

biblioteca

Il 25 marzo, solennità dell’Annunciazione della maternità di Maria, prende simbolicamente avvio il viaggio di Dante nella «selva oscura». Ed è proprio in questa data che papa Francesco ha emesso la sua Lettera Apostolica Candor Lucis aeternae («Splendore della Luce eterna») per il settimo centenario della morte dell’autore di quel «poema sacro / al quale ha posto mano cielo e terra» (Paradiso XXV, 1-2). Certo, può essere sorprendente che un pontefice, e con lui i suoi predecessori, celebrino colui che aveva scaraventato all’inferno tra i simoniaci, nella terza bolgia di Malebolge, un papa mentre era ancora in vita, Bonifacio VIII Caetani. Ma è altrettanto vero che l’Alighieri era un incrollabile credente e un raffinato teologo cristiano.

         Ebbene, un’ampia parte iniziale della Lettera di papa Francesco raccoglie le voci dei suoi predecessori e fa sue le parole nette di Paolo VI: «Non rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice Romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti». Ma, come si diceva, è indubbia la certezza che «tali fieri suoi atteggiamenti non abbiano mai scosso la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione alla Chiesa».

         La Lettera Apostolica si trasforma, così, in una vera e propria mappa essenziale dell’opera del Poeta, partendo dal nucleo germinale della stessa biografia dell’Alighieri evocata in tutte le sue tappe, soprattutto nella «struggente malinconia» dell’esule e pellegrino, lontano dall’amata e detestata Firenze e dagli «scelleratissimi fiorentini». Ma, come suggerisce finemente papa Francesco, questa amara esperienza personale viene trasformata e sublimata «in un paradigma della condizione umana» segnata da un cammino che ha come due stelle di riferimento: «il desiderio profondo, il ‘disìo’, presente nell’animo umano, e il punto d’arrivo di ogni autentico itinerario umano, la felicità, data dalla visione dell’Amore che è Dio».

         Si configura, così, la missione del Poeta che si erge come un profeta di speranza nel realismo del suo sguardo sull’imponente sequenza di miserie e vergogne di cui è lastricata la via della storia. Suggestivo è il rimando all’Epistola XIII a Cangrande della Scala in cui Dante confessa che «il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita da uno stato di miseria e condurli a uno stato di felicità». Con questo programma, nota il papa, egli «si erge a messaggero di una nuova esistenza, a profeta di una nuova umanità che anela alla pace e alla felicità», traendola dal fango infernale degradante per condurla allo sfolgorare della beatitudine celeste.

         Dante è, dunque, il «cantore del desiderio umano», proprio nel senso etimologico del termine che rimanda ai sidera, alle stelle, senza cedere alla tentazione della stanchezza e dello scoraggiamento, come lo ammonisce la guida Virgilio: «Ma tu perché ritorni a tanta noia / perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?» (Inferno I, 76-78). In questo itinerario sono in azione due potenze efficaci: da un lato, la misericordia di Dio che stende la sua mano liberatrice, e dall’altro, la libertà umana che la afferra così da essere sottratti al gorgo tenebroso del male. È interessante notare che papa Francesco riserva alla dialettica grazia-libertà un’intensa riflessione adottando come emblema il re Manfredi, figlio di Federico II, che sulla soglia della morte, trafitto da due colpi di spada, confessa: «Io mi rendei, / piangendo, a quei che volentier perdona. / Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinità ha sí gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei» (Purgatorio III, 119-123). Facile è scorgere in filigrana a queste parole la parabola evangelica del «Figlio prodigo».

         La meta ultima del percorso della vita umana e del desiderio autentico è la visione suprema di Dio. Tuttavia è significativo che nella contemplazione della purissima trascendenza della Trinità, Dante veda un volto umano: è quello di Cristo, la Parola eterna divina fatta carne nel grembo di Maria. Per questo la «circulazion», la dinamica trinitaria, di «tre giri / di tre colori e d’una contenenza…, / mi parve pinta de la nostra effige» (Paradiso XXXIII, 127-131). Come commenta papa Francesco, «l’uomo in tutta la sua umanità, con la sua carne, può entrare nella realtà divina, simboleggiata dalla rosa dei beati. L’umanità, nella sua concretezza, con i gesti e le parole quotidiane, con la sua intelligenza e i suoi affetti, con il corpo e le emozioni è assunta in Dio, dove trova la felicità vera e la realizzazione piena e ultima, dove raggiunge il punto d’arrivo di tutto il suo cammino».

         Una bella sorpresa affiora in un capitolo della Lettera simile a un trittico tutto femminile. Salgono sulla ribalta tre donne. La prima ovviamente è Maria, «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», esaltata nel celebre inno del finale canto XXXIII, ma già contemplata su invito di san Bernardo come «la faccia ch’a Cristo / più si somiglia» (Paradiso XXXII, 85-86). La seconda è Beatrice, «l’amore umano trasfigurato dall’amore divino», come annota il pontefice, citando la voce della donna nell’avvio stesso del cammino di ricerca del poeta: «I’ son Beatrice che ti faccio andare; … amor mi mosse, che mi fa parlare» (Inferno II, 70.72). E, infine, ecco Lucia, santa martire siracusana, che interviene sia agli inizi infernali del viaggio di Dante, sia nell’ascesa sulla montagna del Purgatorio, sia nella «candida rosa» paradisiaca, sempre intercedendo per il poeta.

         Ma non poteva mancare, a suggello della lettura dantesca del papa, il santo di cui egli porta il nome, Francesco d’Assisi, protagonista del canto XI del Paradiso, figura cara non solo a lui ma anche a Dante, tant’è vero che il pontefice stabilisce un suggestivo parallelo tra il santo e il Poeta. È, così, giunto il momento dell’appello finale, che si sfrangia irradiandosi verso diverse destinazioni: alle molteplici culture, alla scuola, alle comunità cristiane, agli artisti e a tutti coloro che cercano «la vera pace e la vera gioia» mentre avanzano nel «pellegrinaggio della vita e della fede… finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, ‘l’amor che move il sole e l’altre stelle’», come recita l’ultimo verso di questo poema umano e divino.

GIANFRANCO RAVASI