Un Nuovo Testamento giudaico

È ormai da tempo che il mondo cristiano ha imparato a porre in parallelo alla propria interpretazione dell’Antico Testamento quella della tradizione giudaica. Essa aveva codificato dei canoni ermeneutici complessi fin dall’antichità: il famoso maestro Hillel li aveva ordinati in un settenario; rabbì Ismael li aveva allargati a 13 ed Eliezer ben Yosè ha-Galil aveva raggiunto il picco di 32 regole, per non parlare poi della lettura mistica sbocciata nel Medioevo col noto Zohar o «Libro dello splendore» del XIII secolo. Per dare l’idea dei due approcci principali, evochiamo innanzitutto la prospettiva halakika di taglio più rituale-giuridico. Così, ad esempio, se si leggeva nella Bibbia che la madre del profeta Samuele pregava in cuor suo muovendo le labbra ma senza far udire il suono della voce, tanto da essere ritenuta ubriaca dal sacerdote (1Samuele 1,9-18), l’applicazione esegetico-pratica era questa: l’ebreo deve recitare le preghiere con le labbra ma senza alzare la voce e all’ubriaco è proibito pregare.

L’altro metodo esegetico è, invece, quello haggadico, cioè narrativo: la libera creatività dell’interprete colma i vuoti presenti nel racconto biblico e fa germogliare dal testo una fioritura di applicazioni morali e di figure esemplari agiografiche. Si delinea, così, non di rado una trama deliziosa, come accadrà nei Vangeli apocrifi cristiani, soprattutto dell’infanzia di Gesù, che sbocciano liberamente dagli scarni ma suggestivi racconti della nascita e dei primi tempi della vita di Cristo presenti negli incipit dei Vangeli di Matteo e Luca. Questi due generi, il giuridico-rituale e il narrativo, seguivano i vari codici applicativi molteplici dettati dai rabbini a cui sopra si accennava. Fermiamoci qui perché il discorso si allargherebbe in una mappa imponente fino a raggiungere la contemporaneità (la tragedia della Shoah ha, infatti, provocato interrogativi aspri nella stessa esegesi giudaica).

I cristiani in questi ultimi decenni, sulla spinta del dialogo interreligioso, hanno raccolto spunti dalla tradizione ebraica soprattutto a livello teologico, morale e catechetico, così come non è mancato il caso (ne posso essere testimone in prima persona) di rabbini commentatori di testi biblici che domandassero ad esegeti cattolici o protestanti di presentare con introduzioni ai lettori cristiani i loro saggi. Quello che vogliamo ora segnalare è un prodotto suggestivo. Non è solo il caso di interpreti cristiani ed ebrei che si trovano insieme nel commentare libri anticotestamentari. È ciò che è accaduto con la recente Bibbia dell’Amicizia che ha puntato su alcuni brani scelti della Torah, ossia dei primi cinque libri della Bibbia, i più venerati dal giudaismo, affidandone l’interpretazione a una cinquantina di studiosi cristiani ed ebrei, sia pure secondo canoni ermeneutici diversi. È significativo ciò che papa Francesco dichiara nella prefazione “cristiana” (quella ebraica è affidata al rabbino di Buenos Aires Abraham Skorka): «È di vitale importanza, per i cristiani, scoprire e promuovere la conoscenza della tradizione ebraica per riuscire a comprendere più autenticamente se stessi».

Noi, invece, vorremmo porre l’accento su un’esperienza più rara che è la reciprocità di quanto affermava il papa, ossia la convocazione di un manipolo di studiosi ebrei davanti alle Scritture cristiane sottoponendole a una loro lettura sistematica. È ciò che è accaduto con The Jewish Annotated New Testament che, dopo una prima edizione del 2011, appare ora rinnovato e arricchito, ed è stato presentato lo scorso 28 marzo anche a Roma presso una delle maggiori istituzioni accademiche cattoliche, la Pontificia Università Gregoriana. Ottanta studiosi ebrei hanno preso in mano la tipica versione in uso nei paesi anglosassoni, la New Revised Standard Version, e si sono dedicati a elaborare un commentario integrale dei 27 “libri” che compongono il Nuovo Testamento.

Il metodo adottato è quello classico. Si premettono introduzioni a ogni “libro” (in realtà, in alcuni casi si tratta solo di biglietti o brevi scritti come la lettera di san Paolo a Filemone, oppure la seconda e terza lettera di san Giovanni o quella di Giuda); si accompagna il flusso del testo neotestamentario con note in calce, mostrandone naturalmente il fitto palinsesto anticotestamentario o gli echi della tradizione giudaica; si incastonano talora dei riquadri su temi specifici (come, ad esempio, la figura dei farisei, così come è abbozzata nei Vangeli, oppure la visione paolina della legge e della circoncisione, o la simbologia numerica dell’Apocalisse e così via). L’analisi di questi commenti è veramente suggestiva perché permette di scoprire sia lo sguardo di occhi diversi dai nostri, sia di intuire come risuona il messaggio fondamentale cristiano in orecchi dalla differente conformazione spirituale, sia la sorpresa di veder applicato al nostro panorama culturale (il Nuovo Testamento è pur sempre il «grande codice» della civiltà occidentale) la verifica di un’intelligenza e di un cuore che si sono alimentati ad altre fonti.

C’è, però, un ulteriore e prezioso apporto in questa operazione di confronto dialogico. Più di duecento pagine finali sono riservate, oltre che ai necessari apparati di glossari e indici, a una ricca sequenza di saggi che tracciano lo sfondo delle origini cristiane e ne isolano le caratteristiche identitarie: il fondale giudaico e greco-romano con le rispettive società, culture e religiosità (c’è persino uno studio sul gender, così come era allora concepito), i grande temi teologici, cultici, etici, il messianismo e la cristologia, il rapporto tra i due Testamenti, l’oltrevita, la figura apparentemente divisiva di Paolo, il protagonista Gesù e sua madre Maria nel pensiero giudaico antico e moderno (anche nella cultura yiddish), il Nuovo Testamento nell’arte ebraica. Ma non si teme di inoltrarsi in terreni più accidentati, in negativo e in positivo: ad esempio, si ha un capitoletto intitolato «Bearing false witness. Common errors made about early Judaism», un aspetto dialettico più che evidente, ma anche «The New Testament and Jewish-christian relations» che, da un passato aspro, si sono aperte a un orizzonte più luminoso, proprio come attesta questa impresa.

Nella prefazione si evoca un’espressione coniata da un importante esegeta luterano svedese, Krister Stendahl, che fu anche vescovo di Stoccolma e docente ad Harvard: egli sosteneva che, se si studiano i testi sacri e le altre tradizioni religiose, si prova una «holy envy», un’invidia che non è un vizio capitale bensì una virtù feconda che permette di liberarci da ogni forma di egoismo e orgoglio spirituale, di scoprire il Verbo divino che interpella tutte le creature umane e di rendere fecondo il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale.

GIANFRANCO RAVASI

The Jewish Annotated New Testament, a cura di Amy-Jill Levine e Marc Zvi Brettler, Oxford University Press USA, New York, pagg. 824, $ 39,95.

Si veda anche: Bibbia dell’Amicizia, a cura di Giulio Michelini e Marco Cassuto Morselli, San Paolo, Cinisello Balsamo, pagg. 384, € 30,00.    

Pubblicato col titolo: Nuovo Testamento giudaico, su IlSole24ORE, n. 96 (7/4/2019)

bib1