Per vincere l'angoscia

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Era il 1946 quando il poeta Wystan Hugh Auden pubblicava a Londra la sua «egloga barocca» intitolata The Age of Anxiety, tradotta nel 1966 da Mondadori, e allusivamente ripresa da Leonard Bernstein nel titolo della sua seconda sinfonia (1949). Significativo era il rimando all’epoca barocca quando l’anelito vitale e il piacere di vivere venivano incrinati dall’incubo della morte, secondo un protocollo però di matrice cristiana. Poi l’atmosfera mutò e la morfologia dell’ansia acquistò altri profili: solo per esemplificare, pensiamo a Kierkegaard e al suo famoso saggio Il concetto di angoscia (1844), a Freud con Inibizione, sintomo e angoscia (1925) e, per venire più vicino a noi, ai Sillogismi dell’amarezza (1952) di Cioran e alle Emozioni politiche (2014) di Martha Nussbaum.

In un’epoca apparentemente così promettente per le conquiste della scienza e della tecnica, sull’umanità si è invece steso un velo di ansia, favorito anche dallo sguardo grifagno di una certa politica aggressiva ed egoista, da una rete informatica alimentata dal livore da tastiera, dalla brutalità xenofoba e, perché no?, dall’estenuarsi fino ad estinguersi della fede, una sorgente zampillante di speranza. È, allora, interessante prendere in mano l’opera di un teologo tedesco già ampiamente tradotto in Italia, Jürgen Werbick, classe 1946, che cerca di aprire ancora una finestra luminosa sul cupo acrimonioso orizzonte della contemporaneità.

Egli lo fa non tanto con la strumentazione culturale sopra esemplificata – componente che potrebbe essere allargata a dismisura (si pensi alla nota analisi di Delumeau sulla Paura in Occidente nei secoli XIV-XVIII, tradotta dalla SEI nel 1994) – e neppure con una registrazione delle paure del nostro presente, elementi che pure evoca, bensì col ricorso specifico alla fede cristiana. È nota la correzione introdotta dall’agnostico Ernst Bloch al proverbio «finché c’è vita c’è speranza»: «finché c’è religione, c’è speranza». Quello di Werbick, però, non è un percorso consolatorio e semplificatorio, consapevole com’è che questa emozione ad alta tensione si distende su uno spettro in cui il violetto della paura può rivelare molte sfumature. Tra l’altro, bisogna ricordare a livello generale che già nel 1981 due ricercatori americani, i Kleinginna, avevano identificato ben 92 definizioni della categoria generale «emozione», aggiungendovi 9 dichiarazioni di impotenza nel classificare un’esperienza umana così fluida.

Per infondere il lievito della fiducia cristiana nella massa opaca della storia attuale, ove si agitano gli incubi del terrorismo, delle ondate migratorie, dei populismi e delle catastrofi, Werbick parte proprio da questo fondo oscuro che aveva già il suo paradigma nelle visioni apocalittiche bibliche e nella stessa categoria del giudizio di Dio, innestandovi i due valori cristiani tipici, verità e amore. Il suo è un procedimento a flussi per cui a ogni epifania della violenza e del terrore generatrice di paura si contrappongono le risorse della fede. È un’operazione difficile da sintetizzare perché il movimento del pensiero sviluppato in queste pagine è piuttosto da seguire passo passo, come uno scorrere di riflessioni sempre ibridate con riferimenti concreti alla cultura e alla società contemporanea.

Se si vuole, si potrebbe immaginare una sorta di seduta non psicanalitica ma teologica ove la narrazione dei mali che generano angosce è ininterrottamente sanata dalla terapia della speranza e della grazia. Il teologo si fa accompagnare in questa operazione, non solo da colleghi ma anche dagli autori più diversi e persino lontani che rendono le sue considerazioni coinvolgenti. Tanto per esemplificare, basterebbe seguire le pagine del capitolo sulla disperazione che si apre con l’immagine agghiacciante eppure ammaliante di Medusa. Ma si è condotti lungo questo crinale da vertigine fino all’autoconsapevolezza del disperare «in modo corretto», senza per questo ergersi nell’hybris del «super-Sé», in un’illusoria volontà di potenza, ma neppure senza lasciarsi trascinare nella deriva di un diluvio distruttore che attrae come un buco nero.

Un altro capitolo suggestivo è quello dedicato alla «risonanza», un concetto che egli matura da un saggio sociologico di Hartmut Rosa (2016). È in pratica il partecipare, il coinvolgere, l’abbracciare l’escluso e il solitario, infrangendo col calore stesso del corpo, del rito, del canto, dell’arte l’alone gelido della paura. Il cuore del cristianesimo è appunto in un Dio “risonante” che non si isola nel cerchio dorato della sua trascendenza ma che «si fa tanto debole da infiltrarsi nelle umane manie di grandezza», cioè di autosalvazione e di autismo spirituale, per mostrare che la divinità autentica è, come suggeriva san Paolo echeggiato da Schelling, «debolezza di Dio per l’uomo». È la famosa categoria della kénosis, lo «svuotamento» della gloria divina per entrare nell’umanità, senza, però, perdere la «risonanza» della potenza salvifica, anzi per irradiarla nella nostra atterrita e impotente umanità.

È in questa linea che si spiega l’approdo finale dell’itinerario proposto da Werbick. L’ultimo capitolo è scandito sulla settimana conclusiva della vita terrena di Cristo per mostrare come l’angoscia di fronte alla sofferenza e alla morte da lui vissuta possa essere attraversata e trasformata in Pasqua. La tonalità del dettato dell’autore a questo punto muta registro e si fa da argomentativo (spesso non semplice) in meditativo-spirituale con qualche schizzo di enfasi predicatoria. Rimane, però, chiaro il concetto: la paura della morte, anzi, la morte stessa, esperienza esclusivamente umana, sono vissute in modo reale dal Figlio di Dio che è in sé eterno e che può quindi fecondarle e spezzarle con la sua divinità.

Una nota a margine di taglio lessicale-semantico. Nelle principali lingue europee il termine «angoscia» (angoisse, anguish, Angst…) è basato sulla radicale di «angustia» che denota la ristrettezza di spazio, quasi di un carcere. Anche nell’ebraico biblico sar, «angoscia», è legato alla radice srr che rimanda allo spazio ristretto e costretto. Per questo la liberazione è spesso affidata alla radicale rhb che indica un orizzonte aperto, vasto e libero. L’invocazione dell’orante diventa, allora: «Allarga il mio cuore angosciato, Signore, liberami dagli affanni» (Salmo 25,17).

GIANFRANCO RAVASI

Jürgen Werbick, Per vincere ansietà e paure, Queriniana, Brescia, pagg. 297, € 28,00.

Pubblicato col titolo: Finché c’è fede non c’è angoscia, su IlSole24ORE, n. 103 (14/04/2019).