SANTA RESILIENZA

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È una sorta di mantra che viene recitato anche da coloro che non ne hanno un concetto preciso: «resilienza», dal latino resilire, «rimbalzare», adatto a definire quella proprietà di alcuni materiali, come i metalli, di assorbire un urto senza rompersi, riprendendo la forma originaria. Traslato in ambito psicologico – come suggeriva Consuelo C. Casula nel saggio La forza della vulnerabilità. Utilizzare la resilienza per superare le avversità (Franco Angeli 2011) – sarebbe quel processo cognitivo, emotivo e comportamentale che rielabora il dolore, la perdita, il lutto, il trauma superandoli, ricostruendo il proprio impianto personale e sviluppando energie interiori prima ignote.

         Stupisce, comunque, che questa categoria fisico-psichica sia adottata come chiave interpretativa delle S. Scritture: è ciò che ha scelto di fare David McLain Carr, classe 1961, docente di scienze bibliche a New York, precisando nel sottotitolo che è sua intenzione identificare «le origini traumatiche della Bibbia». Tra l’altro, il termine greco tráuma, derivante dalla radice indoeuropea tro-, significa «perforazione, ferita», ed è un hapax nel Nuovo Testamento: nella celebre parabola del Buon Samaritano tráumata sono le «ferite» inflitte alla vittima dai briganti nel deserto di Giuda (Luca 10,34). Il verbo traumatízein, «ferire» risuona, invece, in un’altra parabola evangelica, quella dei vignaioli omicidi (Luca 20,12) e in un curioso episodio di esorcismo narrato negli Atti degli Apostoli (19,16).

         A questo punto è interessante verificare l’applicazione ermeneutica che lo studioso americano fa della categoria «resilienza» all’arco storico biblico. Effettivamente, a partire dalla «preistoria» sacra col peccato adamico e il diluvio (che, però, non sono considerati), la sequenza delle vicende dell’Israele biblico è scandita da traumi spesso catastrofici: la schiavitù egizia, la frattura nei due regni tra loro ostili, l’invasione assira, la distruzione di Gerusalemme e l’esilio babilonese, la crisi ellenistica con le repressioni del potere siro, tanto per citare le tappe capitali di questa storia. Ebbene, alle varie catastrofi subentra sempre una epistrofe, ossia una reazione che ricostruisce dalle macerie un’identità dai tratti permanenti eppur innovativi.

         Tanto per fare qualche esempio, la pasqua celebrata dopo l’oppressione faraonica apre l’esodo liberatorio, ed è una festa di sopravvivenza per una nuova alba di libertà; l’esilio babilonese è seguito dal ritorno al focolare nazionale, all’insegna dell’appello entusiastico del cosiddetto Secondo Isaia (cc. 40-55); l’irruzione ellenistica non genera solo la reazione dei Maccabei ma anche la fissazione delle Scritture Sacre e la loro diffusione oltre l’orizzonte giudaico con la versione greca dei Settanta.

         La stessa categoria della resilienza viene adottata per il Nuovo Testamento, nella consapevolezza che esso nasce dall’evento traumatico della crocifissione di Cristo. Ma la sofferenza e la morte non sono l’estuario definitivo, come insegnano la fede nella risurrezione e la missione degli apostoli. Ed è proprio la Chiesa ad essere sottoposta a persecuzioni in modo sistematico, mentre l’impero romano nel 70 d.C. cancella ancora una volta la Gerusalemme ebraica. Eppure questi traumi sono resilienti e aprono una stagione nuova sia per il cristianesimo, sia per il giudaismo. Interessante è, poi, la figura emblematica di Paolo, il persecutore che diventa evangelizzatore.

         Il testo di McLain Carr ramifica ulteriormente il delta della sua interpretazione e punta a una particolare attualizzazione: in tempi in cui l’umanità è colpita da molteplici ferite (si pensi ora al coronavirus) la Bibbia può essere un paradigma di resilienza. È ciò che viene affermato in un’appendice un po’ didascalica e settoriale nella quale l’autore si affaccia sugli studi contemporanei al riguardo, con una menzione specifica del PTSD, ossia del «posttraumatic stress disorder», il disturbo psichico che consegue a un trauma e al suo superamento. Certo è che l’approccio dell’esegeta alle Scritture ebraico-cristiane è originale, anche per vari temi teologici collegati, come il monoteismo, i concetti di alleanza, di elezione, di purità rituale, il rilievo narrativo dei molteplici conflitti presenti nella Bibbia, la funzione catartica e rigeneratrice della sofferenza.

         Per rimanere nell’ambito del ricorso a coordinate non comuni nella lettura delle pagine bibliche, una segnalazione merita un’altra vasta analisi condotta da un docente della prestigiosa università americana di Notre Dame nell’Indiana. Jerome H. Neyrey, che già si era esercitato a proporre l’antropologia culturale come strumento ermeneutico biblico accanto al metodo classico storico-critico, vaglia il Vangelo di Matteo sotto il profilo dell’etica dialettica dell’onore e della vergogna. Questo binomio ossimorico costituisce, infatti, allora e oggi una prospettiva strutturale attraverso la quale si giudicava il singolo e la società.

         Anche l’evangelista respirava quest’atmosfera e, quindi, era coinvolto a livello culturale nella retorica della lode e del biasimo. Lo studioso tenta una ricomposizione della trama narrativa evangelica matteana come «encomio» di Gesù, a partire dalle origini, passando attraverso i suoi atti per raggiungere la «nobiltà» della sua morte. Questo particolare criterio che in apertura è ampiamente decifrato nelle sue varie componenti strutturali, metodologiche e funzionali, riceve una sorprendente declinazione all’interno di una pagina fondamentale che è il Discorso della montagna (Matteo 5-7). In esso risulta paradossale il ribaltamento operato da Cristo nelle Beatitudini, ove vengono «onorati i disonorati».

         Anche in questo caso si rivela la discontinuità che Gesù introduce in schemi socio-culturali canonizzati, proponendo una visione alternativa per cui il discepolo non esita a imboccare la via della privazione dell’onore, trasformando la scala dei valori. Onorabili diventano i poveri, esclusi dal livello sociale qualificato, i miti sconfitti nella storia, i misericordiosi che scelgono il perdono invece della vendetta, gli artefici di pace che escludono il trionfo, e clamorosamente i perseguitati, ossia le vittime trascinate nella polvere dell’ignominia. Sono solo alcuni spunti di un complesso viaggio testuale condotto secondo questi parametri culturali ben noti all’evangelista Matteo che vengono, però, scanditi e rigenerati dall’irruzione del rabbì di Nazaret.

GIANFRANCO RAVASI

David McLain Carr, Santa resilienza. Le origini traumatiche della Bibbia, Queriniana, Brescia, pagg. 261, € 27,00.

Jerome H. Neyrey, Onore e vergogna nel vangelo di Matteo, Paideia, Torino, pagg. 350, € 37,00.

Pubblicato col titolo: La Bibbia paradigma di santa resilienza, su IlSole24ORE, n. 231 (23/08/2020).