GIUSEPPE E GESÙ

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Quando, anni fa, pubblicai un breve saggio su Giuseppe, il padre legale di Gesù, l’editore non seppe resistere alla scelta tradizionale di affidare la copertina all’immagine più popolare del santo, l’olio su tela che Guido Reni dipinse nel 1635 e che ora è custodito all’Hermitage. Secondo un’iconografia codificata, il santo è raffigurato in età avanzata e il piccolo Gesù gli accarezza la folta barba bianca. François Boespflug, noto storico dell’arte ma anche teologo, docente emerito dell’università di Strasburgo, per il suo testo-album su Gesù e Giuseppe nell’arte ha optato invece per un originale e sorprendente dipinto di un non molto celebrato pittore “orientalista” dell’Ottocento (le date offerte nel volume sono però contraddittorie), Benjamin Constant.

         L’opera, presente nella chiesa parrocchiale di Villers-sur-Mer in Francia, accosta Giuseppe e il ragazzo Gesù seduti su un muro a gambe penzoloni, «nel momento di una pausa condivisa fra uomini usciti dalla bottega, con la sega appoggiata al muro, intenti a godersi insieme il relax all’aria fresca», resi però riconoscibili dalle loro un po’ stravaganti aureole. Come è noto, nonostante l’esile e silenzioso affacciarsi di Giuseppe nei Vangeli, la sua figura ha campeggiato nella tradizione popolare, al punto tale che – almeno fino a qualche tempo fa – pare che «Giuseppe» (con tutte le varianti diminutive e vezzeggiative, maschili e femminili) fosse il nome più diffuso in Italia, tanto che – sempre fino a qualche decennio fa – la sua solennità, il 19 marzo, era persino festa civile.

         Per organizzare la sequenza iconografica giosefita Boespflug ha adottato la trama evangelica canonica e apocrifa. Così, si parte dalla tormentata vicenda iniziale con la sorpresa della fidanzata incinta e con la successiva nascita del figlio a Betlemme. Si procede con l’ancor più drammatica avventura della fuga in Egitto per sottrarre la famiglia ai sospetti sanguinari del re Erode e col rientro a Nazaret, che dà il via a un capitolo biografico assente nei Vangeli canonici, supplito però in abbondanza dagli apocrifi. Non manca, però, anche l’inserzione dell’evangelista Luca (2,41-52) con l’episodio della maggiore età di Gesù a dodici anni mentre interloquisce nel tempio gerosolimitano coi dottori della Legge.

         La narrazione approda, infine, a un Gesù tenero e trepidante al capezzale di Giuseppe morente e al coronamento glorioso del carpentiere di Nazaret nella patria celeste. Naturalmente questo duplice esito di morte e di luce è affidato all’appassionata penna degli scrittori cristiani apocrifi. A questo proposito è difficile resistere alla tentazione di evocare una curiosa Storia di Giuseppe il falegname, composta in greco in Egitto nel IV secolo ma a noi giunta nelle versioni araba e copta, edite nel 1722 dallo studioso svedese G. Wallin. È una deliziosa biografia paterna narrata dallo stesso Gesù. Le pagine più intense sono proprio quelle dedicate all’agonia e alla morte di Giuseppe sulle cui labbra affiora questa estrema invocazione: «O Gesù Nazareno, o Gesù mio consolatore, Gesù liberatore della mia anima, Gesù mio protettore, Gesù, nome soavissimo sulla mia bocca e su quella di tutti coloro che lo amano».

         Questo apocrifo e la relativa tradizione devozionale hanno appunto alimentato la storia dell’arte, come attesta Boespflug attraverso una ricca galleria di dipinti di forte impatto emotivo, soprattutto nell’estremo incrocio degli sguardi tra il padre agonizzante e il figlio (suggestive le tele di Goya e di Andrea Pozzo). Naturalmente il volume coi quasi 120 soggetti proposti copre l’arco intero della storia di questo téktôn, come lo definiscono i Vangeli di Marco (6,3) e Matteo (13,55), una professione che forse potremmo rendere col nostro «artigiano» perché il vocabolo greco usato è in assonanza col greco téchnê che significa appunto «arte», evocando però anche il «mestiere». Al riguardo, tra i quadri non poteva mancare il celebre San Giuseppe falegname di Georges de La Tour, esposto al Louvre, con l’impressionante contrasto luce-oscurità, tipico di questo pittore caravaggesco francese del Seicento.

         In questa vera e propria pinacoteca giuseppina si procede accompagnati dall’autore, guida straordinaria che non ha esitato anche a condurci, nei vari soggetti, fino alle rappresentazioni più modeste e persino contemporanee. Così, ad esempio, in appendice al volume entra in scena una scultura (a nostro avviso piuttosto bruttina ma “nazionalpopolare”) del francese Luc de Moustier (2017) che, a livello naturale (1,75), ha voluto ricreare un Giuseppe «Cristoforo» (cioè portatore di Cristo sulle spalle).

         Immagine “laicamente” ricreata nel 2018 da François-Xavier de Boissoudy, artista caro a Boespflug, con una suggestiva titolatura, Sulle spalle. Ma più ingenuo e commovente è il Giuseppe che reca sulle spalle la culla del neonato Gesù dormiente la cui tendina è svelata dalla mamma Maria, mentre i due fuggono in Egitto, opera del secentesco Bartolomeo Castagnola nella Pinacoteca di Sassari. E dato che non si può mettere tutto in un’antologia, noi aggiungiamo liberamente un soggetto ancor più celebre del Reni da cui siamo partiti: l’indimenticabile «Tondo Doni» michelangiolesco degli Uffizi col possente Giuseppe capofamiglia.

GIANFRANCO RAVASI

François Boespflug, Gesù e Giuseppe nell’arte, Jaca Book, pagg. 178, € 70,00.