Il libro del Papa spopola nelle librerie e alimenta dibattiti. Perché ricompone la scissione tra il Gesù “reale” e quello “storico”, restituendo al cristianesimo la sua forza di speranza e di provocazione

«Quando l’ebbi finito, mi meravigliai io stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame diventava attento, più distintamente vedevo Cristo. Annotai allora sul diario: Purtroppo Cristo! Purtroppo ancora Cristo!». Così, in piena rivoluzione sovietica, nel 1918, Aleksandr Blok licenziava il poema “I Dodici” con questa confessione sorprendente. Sono passati quasi duemila anni dalla sua esecuzione capitale su quello sperone roccioso denominato in aramaico Golgotha, cioè “Cranio”, in latino Calvario, eppure Gesù di Nazaret è una figura che continua a interessare e a provocare.

Un simbolo come il crocifisso suscita ancora polemiche feroci. Non si vuole riconoscere il cristianesimo come matrice della cultura occidentale, ma senza i Vangeli buona parte della nostra arte è indecifrabile. E ora un libro come il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI spopola nelle librerie e riesce ad alimentare ancora dibattiti. Si può essere di “diverso parere” sulla sua identità ultima, ma è indubbio che aveva ragione quel vecchio ebreo di nome Simeone che, tenendolo ancora bambino tra le braccia, aveva definito Gesù «segno di antitesi», amato e detestato, emblema di libertà o strumento di oppressione, rivoluzionario o maestro spirituale, “carne” debole e Lógos trascendente, per usare il linguaggio di un altro evangelista, Giovanni.

Mario Pomilio, nelle ultime righe del romanzo “Quinto evangelio” (1975), risaliva a una domanda che un giorno il rabbí di Nazaret aveva fatto serpeggiare tra i suoi discepoli: «Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione di quei discepoli di fronte alla domanda: ma voi chi dite che io sia?». Tante e disparate sono state le risposte, a partire da quelle dei suoi stessi discepoli di allora. Semplificando, potremmo dire che si è operata una divaricazione tra coloro che hanno identificato solo un Cristo diafano, immerso nella luce divina, e coloro che hanno puntato solo a un Cristo carnale, dai lineamenti storici più o meno decifrabili.

La sfida del libro di Benedetto XVI è quella di ricomporre questa scissione, seguendo la fonte basilare, ossia i quattro Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Il metodo adottato intreccia l’interpretazione storica con quella teologica, cioè incrocia le due vie di ricerca aperte davanti a noi per isolare il Gesù Cristo “reale” che è molto più complesso e completo del semplice Gesù “storico”. Infatti, per ogni personaggio e persino per ciascuno di noi ciò che è documentabile storiograficamente in modo ineccepibile è molto meno di quanto ognuno di noi è nella realtà.

Certo, si tratta di due approcci differenti, ma «distinguerne i livelli, continua il Papa, non significa separarli, né contrapporli, né meramente giustapporli. Essi si danno solo in reciprocità». Ritrovare questa interazione tra storia e fede – che è parallela ad altri rapporti che sono ormai comuni nella ricerca storica (pensiamo all’uso della sociologia, della psicologia, dell’antropologia e così via) – risponde alla struttura intima delle stesse fonti evangeliche, come pure a una compiuta analisi dell’esistenza tout court: essa non è pienamente decifrabile solo con asserti fisici o storiografici, ma anche con altre vie di esperienza come quella estetica o d’amore o mistica.

Il volume di Benedetto XVI, ideale continuazione di quello apparso nel 2007, punta agli eventi ultimi della vicenda terrena di Gesù di Nazaret: in nove tappe si procede dalle ore drammatiche dell’arresto e del duplice processo, presso il Sinedrio, il tribunale supremo giudaico, e il pretorio imperiale romano, fino all’atto supremo della crocifissione. Ma il vero apice è nella risurrezione-ascensione ove si apre un orizzonte inedito nel quale l’incrocio storia e mistero si fa bruciante. Libero da ogni letteralismo («l’ascensione non è un andarsene in una zona lontana del cosmo, ma è la vicinanza permanente» di Cristo nell’infinito divino che ingloba e trascende lo spazio), il cristianesimo qui si presenta nella sua forza di provocazione e di speranza. Aveva ragione l’ateo Emil Cioran, quando lamentava che nel nostro tempo «il cristianesimo, consumato fino all’osso, ha smesso di essere una fonte di stupore e di scandalo, ha smesso di scatenare vizi e di fecondare intelligenze e amori».