«Cuncè, che brutto suonno che mi sò fatto stanotte! Mi sono sognato che lavoravo». Forse qualcuno dei lettori ricorderà questa battuta di Eduardo De Filippo nel suo Natale in casa Cupiello. Allora si rideva, anche perché il lavoro non mancava e la frase serviva a noi settentrionali per ironizzare sui meridionali bollati con lo stereotipo di scansafatiche. Luogo comune ogni tanto rinverdito e rifilato oggi anche a quegli stranieri che in realtà compiono lavori che nessuno di noi si accollerebbe. Eppure la battuta di De Filippo ha ai nostri giorni un’altra verità indiscutibile.

         Per molti il lavoro è, infatti, un incubo e non nel senso inteso dal grande autore napoletano, ma secondo un triplice diverso profilo. Innanzitutto la disoccupazione è diventata una preoccupazione (e non è un gioco di parole). Lo confesso con amarezza io che ogni giorno ricevo il curriculum di almeno due o tre persone: dietro il freddo stampo dello “standard europeo” con cui è redatto, non riesco a ignorare l’angoscia  che si cela tra quelle righe, l’assillo della necessità, l’insoddisfazione di una vita trascinata senza un impegno.

         La Bibbia era lapidaria nel definire l’“ominizzazione”: «Il Signore Dio pose l’uomo nel giardino (del mondo) perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15). Il monito paolino ai cristiani di Tessalonica: «Chi non lavora neppure mangi» (II, 3,10), che Lenin considerava «la regola essenziale, iniziale, principale dei soviet» e che voleva inserire nella stessa costituzione sovietica, acquista ora un ben più drammatico significato. Senza occupazione c’è fame o, comunque, una caduta di dignità.

         Ma c’è un altro profilo da assegnare alle parole di Eduardo: nel brutto sogno di un lavoro conquistato a fatica si leva tragico il mostro delle morti bianche, locuzione eufemistica per definire in realtà morti sporche. Le scempiaggini e l’inerzia dell’odierna politica e il tritacarne dell’informazione che narcotizza pensieri troppo truci hanno già dissolto nella dimenticanza i corpi straziati delle donne di Barletta, così come quelli che ogni giorno muoiono sui posti di lavoro, mentre cercano di dare da mangiare a se stessi e alle loro famiglie.

         Era ancora la Bibbia ad osservare che «col sudore della fronte mangerai il pane, finché tornerai alla terra donde sei stato tratto». Ma spesso queste due tappe della vita – azione e morte – si identificano e il sudore diventa sangue. Si ripete che noi non siamo più nelle ferriere dell’Ottocento né nelle catacombe irrespirabili affollate di lavoratori cinesi, e questo è per fortuna vero. Ma non lo è sempre, e la vicenda di Barletta con quel sotterraneo miserabile è quasi l’emblema di tante situazioni di degrado e di insicurezza a cui sono votati molti lavoratori, soprattutto stranieri. Nel romanzo La chiave a stella Primo Levi affermava che «la migliore approssimazione concreta della felicità sulla terra è l’amare il proprio lavoro», e aveva ragione. Ma come amare una sorta di schiavitù o di “lavoro forzato” nel quale non di rado si trovano alcuni a produrre?

         C’è, infine, un ultimo profilo dell’“incubo” del lavorare: anch’esso spiccava in modo scandaloso nella vicenda tragica di quelle donne pugliesi. Era il loro salario offensivo, meno di cinque euro all’ora! La cifra diventa persino minore per certi loro colleghi terzomondiali che, ad esempio, nelle vicine campagne raccolgono pomodori. Una somma che alcuni senza pudore e decenza spendono talora in un secondo per accontentare i loro vizi o i loro capricci.

         Sono consapevole che quanto ho scritto può essere rubricato sotto il genere del “moralismo”. Ma sono in buona compagnia. Non era un sindacalista preso dall’enfasi di un comizio, ma era uno della cerchia di Gesù, l’apostolo Giacomo, che nella sua Lettera raccolta nel Nuovo Testamento (e quindi testo sacro e normativo per i cristiani) scriveva: «E ora a voi, o ricchi! Il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, ma vi siete ingrassati per il giorno della strage!» (5, 4-5).