Se nel villaggio di Nazaret in Galilea ci fosse stato un ufficio dell’anagrafe, nel registro di uno degli anni posti all’inizio dell’era attuale si sarebbe trascritto come residente un certo Giuseppe, figlio di Giacobbe o di Eli (paternità discussa, stando alle due testimonianze non concordi dei Vangeli di Matteo 1,15-16 e di Luca 3,23), sposato a una Maria, con un figlio di nome Gesù, e di professione naggara’, che nella lingua locale, l’aramaico, poteva significare «artigiano», «carpentiere» o «falegname», in greco (l’inglese di allora) téktôn. Sono questi i dati personali che possiamo ricavare dai Vangeli riguardo al personaggio che l’evangelista Matteo presenta come attore principale della nascita e dell’infanzia di Gesù, a differenza del collega Luca che privilegia la madre Maria.

         Una figura modesta, quindi, nonostante la conclamata discendenza davidica, documentata dalla genealogia posta in apertura al Vangelo di Matteo (1,1-17). Ad essa si deve aggiungere un ulteriore dato storico collegato alla nascita del figlio Gesù ma piuttosto difficile da definire nella sua cronologia precisa. Si tratta di un censimento imperiale romano imposto dal governatore di Siria Quirinio secondo una modalità etnico-tribale e non residenziale, evocato dal Vangelo di Luca (2,2). Concretamente ci si doveva registrare nella sede originaria dell’ascendenza del clan familiare. È, appunto, Luca a segnalare che «Giuseppe dalla Galilea, dalla città di Nazaret, dovette salire in Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme perché apparteneva al casato e alla famiglia di Davide» (2,4).

         Noi cercheremo di gettare uno sguardo innanzitutto sull’esperienza piuttosto sconcertante vissuta da questo artigiano in occasione della nascita del figlio, avvenuta appunto durante i giorni di quel censimento, forse il 7/6 a.C., in un alloggio di fortuna a Betlemme. Ritorniamo, perciò, al testo di Matteo: «Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1,18-21).

         C’è una componente da chiarire. Nell’antico Israele il matrimonio comprendeva due fasi distinte ma connesse. La prima era il fidanzamento ufficiale la cui ratifica aveva un rilievo particolare per la donna: pur continuando a risiedere nella casa paterna, essa era considerata già sposa del futuro marito, per cui ogni infedeltà era rubricata come adulterio. La seconda fase comprendeva la celebrazione nuziale col trasferimento alla casa dello sposo con canti, danze e banchetti, evento evocato da una suggestiva parabola di Cristo, quella delle ragazze sagge e sbadate (si legga Matteo 25,1-13).

         Il racconto sopra citato si colloca nella fase del fidanzamento: «prima che andassero a vivere insieme», la fidanzata-sposa Maria «si trovò incinta». Giuseppe è di fronte a una scelta drammatica, quella del «ripudio» in senso stretto, tant’è vero che Matteo usa il verbo greco apolýsai, il termine tecnico del divorzio, con tutte le conseguenze penali e civili persino drammatiche per la donna. Per fortuna non sempre nel giudaismo si applicava il comma della legge biblica che era implacabile: «Se la fidanzata non è stata trovata in stato di verginità, allora la faranno uscire all’ingresso della casa paterna e la gente della sua città la lapiderà a morte» (Deuteronomio 22,20-21). È facile rimandare alla scena che si consumerà sulla spianata del tempio di Gerusalemme con l’adultera in procinto d’essere lapidata e salvata da Gesù con la celebre frase: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Giovanni 8,1-11).

         Giuseppe è innamorato di Maria e non sa come rendere meno atroce per lei la condanna. Da «uomo giusto», cioè corretto (non può avallare col suo nome un bambino di padre ignoto) ma anche mite e compassionevole per quella che di per sé era già la sua donna, opta per un ripudio segreto, senza la procedura legale ufficiale, evitando la consegna formale del «libello di ripudio», diminuendo così anche l’eventuale rischio del ricorso alla lapidazione da parte del parentado. Mentre è lacerato interiormente, la sua oscurità interiore è squarciata da un lampo di luce che è espresso attraverso una forma classica già nell’Antico Testamento, un’epifania angelica. Ora nella Bibbia l’angelo è segno di una rivelazione divina e Giuseppe ne sperimenterà la presenza a più riprese nel racconto dei due capitoli di Matteo dedicati alla nascita e all’infanzia di Gesù.

         Si tratta, quindi, di una forte esperienza interiore che lo spinge a una scelta diversa: egli dovrà condurre a termine anche la seconda fase del matrimonio «prendendo con sé Maria sua sposa» perché in quella donna è accaduto un evento unico e straordinario, un seme divino (lo Spirito di Dio stesso) l’ha fecondata. A lui toccherà il compito di essere il padre legale di quel bimbo, registrandolo all’anagrafe col nome di Gesù, che significa «il Signore salva».

         Una prassi, quella della paternità legale o putativa, confermata anche in altri casi delle S. Scritture, come per il cosiddetto «levirato» (dal latino levir, «cognato»), così formulato dalla legge biblica: «Quando uno dei fratelli di una famiglia morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto si unirà con un suo cognato che se la prenderà in moglie... Il primogenito che ella genererà, avrà il nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele» (Deuteronomio 25,5-6; si legga anche Matteo 22,23-33 con un caso paradossale di levirato, proposto a Gesù dai sadducei, la corrente conservatrice del giudaismo).

         Matteo cita la nascita di Gesù a Betlemme solo in un paio di righe, a differenza di Luca che, come si diceva, punta invece il suo obiettivo sulla figura della madre Maria, e conclude: «Prese con sé la sua sposa e, senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (1,24-25). È noto che «conoscere» è un modo di dire biblico per indicare l’atto sessuale: si ribadisce così la verginità della madre che ha come centro il fatto che quel figlio nasce non da seme o scelta umana, bensì è frutto solo dell’intervento divino. Giuseppe appare, quindi, soltanto agli esordi della vita di Gesù. Inizi per altro drammatici, avvolti subito nel sangue della strage dei bambini di Betlemme imposta da Erode e con l’esperienza amara di profugo che egli sperimenterà assieme alla sua famigliola, divenuta emigrante e clandestina in Egitto, una terra che in passato non era stata certo benevola con gli Ebrei (Matteo 2,13-23).

         Il Vangelo di Matteo segue con una serie di quadri queste vicende che rendono Giuseppe, Maria e il loro Bambino simili a tanti migranti che tentano di approdare sulle nostre coste o di avviarsi sulle rotte balcaniche per cercarvi un rifugio ospitale, spesso a loro negato. Lo schema narrativo adottato dall’evangelista per descrivere le varie vicende è quello di introdurre sempre un’apparizione angelica che segnala la presenza premurosa di Dio su Giuseppe e sulla sua famigliola e di aggiungere una citazione dell’Antico Testamento, così da mostrare come la vita di Gesù è inserita e diventa la meta di pienezza dell’intera storia della salvezza.

         Un’ulteriore presenza indiretta di Giuseppe è registrata da Luca quando evoca l’episodio sorprendente del distacco del figlio dai suoi genitori, durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, per rimanere tra i dottori della Legge nel tempio. Gesù aveva allora 12 anni, cioè era entrato nella maggiore età secondo la tradizione giudaica. Le parole che Maria gli rivolge anche a nome del suo sposo hanno il tono di un velato rimprovero che fiorisce dall’ansia e dall’affetto: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Luca 2,48).     Giuseppe, che tra l’altro nei Vangeli non parla mai, scompare subito di scena ritornando con Maria e Gesù a Nazaret, la cittadina della Galilea ove trascorrerà il resto della sua vita. Solo una volta rientrerà indirettamente sulla ribalta, ma in una forma un po’ amara. Un giorno, infatti, i suoi concittadini nazaretani ironizzeranno sulla figura del figlio – divenuto ormai noto per le sue parole e i per segni che compie – con questa sprezzante definizione: «Non è costui il figlio del falegname?» (Matteo 13,55).

         Giuseppe ha avuto invece un successo non marginale nei Vangeli apocrifi, al punto tale che esiste persino una deliziosa (e piuttosto fantasiosa) Storia di Giuseppe il falegname, scritta in greco in Egitto nei primi secoli, giunta a noi solo nelle versioni araba e copta e pubblicata del 1722 dallo svedese G. Wallin. Da essa estraiamo un passo molto suggestivo. Infatti, questo Vangelo popolare non canonico mette sulle labbra di Giuseppe agonizzante (una scena entrata nella storia dell’arte) questa intensa invocazione al Figlio che lo assiste con la Madre in lacrime: «O Gesù nazareno, o Gesù mio consolatore, Gesù liberatore della mia anima, Gesù mio protettore, Gesù nome soavissimo sulla mia bocca e su quella di tutti coloro che l’amano!».

         Per delineare questo ritratto essenziale del padre legale di Gesù, noi però ci siamo riferiti solo ai Vangeli canonici. Tuttavia, idealmente potremmo tenere davanti agli occhi l’immagine del forte capofamiglia Giuseppe che incombe sulla sposa Maria e sul piccolo Gesù nel michelangiolesco Tondo Doni (circa 1504) degli Uffizi, una tempera su tavola che rappresenta in modo non convenzionale la Sacra Famiglia. La scena ricompone la serenità dei giorni trascorsi a Nazaret subito dopo il rientro dall’oscura prova dell’esilio egiziano (Matteo 2,22-23), rendendo quella famiglia un modello di amore e di fiducia.

GIANFRANCO RAVASI