AVARIZIA

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«Maladetta sie tu, antica lupa / che più di tutte l’altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa!». Chi non ricorda questa violenta invettiva dantesca che nel Purgatorio (XX, 10-12) bolla il secondo dei sette vizi capitali, l’avarizia? È, questo, uno dei topoi classici della tradizione religiosa, etica e letteraria. Lapidario è Qohelet: «Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro» (5,9); radicale è Gesù: «Non potete servire a Dio e a mammona» (Luca 16,23: tra l’altro, il termine fenicio usato è basato sulla stessa matrice della fede, il nostro amen); consequenziale è san Paolo: «L’avarizia insaziabile è idolatria» (Colossesi 3,5).

         E in letteratura come non pensare subito all’auri sacra fames dell’Eneide virgiliana, un istinto «esecrando» (sacra) che Shakespeare incarnerà nel Mercante di Venezia, e che scenderà fino allo scatenato Mazzarò della novella La roba di Verga («Roba mia, vientene con me!», urla alle soglie della morte). La genealogia letteraria e morale delle tipologie di avari è sterminata e si ramifica anche nelle analisi psicologiche, nelle rilevazioni sociali, sconfinando persino nell’arte (l’orrenda vecchia che la rappresenta secondo Otto Dix).

         A inoltrarsi ancora una volta in questo pianeta – che ha per patrono l’ex-apostolo Giuda, bollato come «ladro» per la sua famelica avidità dall’evangelista Giovanni (12,6) – è ora Gabriella Airaldi, che ha insegnato a Genova, e che ritenta una nuova ed essenziale storia della febbre di possesso. A proposito la lingua italiana non manca di allargare un ventaglio lessicale di sinonimi: cupidigia, spilorceria, tirchieria, avidità, taccagneria, esosità, pitoccheria, fino a quella truce sorella che è l’usura, «peggio della peste», come protesterà Ezra Pound in una sua famosa poesia. La trama di questa storia dei tanti Scrooge irredenti, a differenza del personaggio dickensiano, si sviluppa a dittico.

         La prima regione è «lontano nel tempo» e risale alla classicità e alle Scritture Sacre ebraiche e cristiane, mettendo poi in scena guerrieri e mercanti, raccogliendo il filo nero dell’antica tradizione ecclesiale. A quest’ultimo proposito, è divertente il governatore imperiale e poi vescovo milanese sant’Ambrogio che, nel suo irruente trattatello sul biblico Nabot (1Re 21), diventa sarcastico: «Ho saputo con certezza che un ricco avaro, quando gli si preparava un uovo, si lamentava che così si uccideva un futuro pollo!». La necessaria documentazione che l’autrice incastona nelle sue pagine rende il suo discorso talora simile a una narrazione, ove si moltiplicano attori, aneddoti, ritratti ma anche si stendono oasi di riflessioni filosofiche e spirituali.

         Sotto il titolo «canone occidentale» è rubricata la più ampia seconda parte del saggio che s’avvia col Medio Evo ove diventano sempre più protagonisti la Chiesa, la città e i mercanti e si afferma la preminenza dell’economia. Il denaro, perciò, corre nella società, nella cultura, nella stessa vita ecclesiale che interviene coi suoi moniti morali e con la teologia ma anche coinvolgendosi nella rete dei commerci. Il tracciato che Airaldi disegna transita necessariamente attraverso la primigenia generazione del capitalismo, destinato a modellarsi nelle sue diverse fasi storiche per approdare alla modernità. L’analisi, pur nella sua essenzialità, s’infittisce e deborda oltre il perimetro dell’avarizia in un profilo dell’«ethos borghese legato al successo del capitalismo mercantile, industriale e finanziario» e in altre considerazioni periferiche e forse un po’ estrinseche.

         Certo, l’«essere avari» rivela connotati differenti, anzi, è solo una faccia che il rapporto con la ricchezza assume, dato che ormai col liberismo e il socialismo, essa acquista una centralità e una funzione polimorfa nella società. Ma questo è un discorso ulteriore e il saggio sembra essere talvolta un po’ sparpagliato nello sforzo di mettere sul tappeto una raggiera di temi e di attestazioni. In appendice, per contrasto, collochiamo una breve riflessione di uno dei maggiori teologi del Novecento, Jürgen Moltmann, classe 1926, ma ancora creativo, come attestano le poche e intense pagine dedicate a una triade di virtù: pazienza, misericordia, solidarietà.

         Sono le ultime due a porsi agli antipodi dell’avarizia. Non per nulla entrano in scena la «regola d’oro» del fare agli altri ciò che si vorrebbe per sé (Matteo 7,12), la figura parabolica del buon samaritano che non esita a pagare di tasca propria le cure per uno sventurato, e persino il celebre mantello diviso di san Martino di Tours. È ovvia la distanza dalla difesa serrata del proprio patrimonio che le mani dell’avaro compiono, a differenza dell’appello biblico: «Se vi sarà qualche tuo fratello bisognoso in mezzo a te, non indurire il tuo cuore e non chiudere la tua mano» (Deuteronomio 15,7-8).

         Ma la persona avida ignora anche la pazienza e la speranza sostituite dall’ingordigia che toglie il sonno e dall’anelito all’accumulo incessante nell’illusione di esorcizzare la morte. E, invece, come già ammoniva il mistico persiano Ad-din ‘Attar (XII-XIII sec.), «l’uomo che suda sangue per accumulare oro, quando crede di averlo per sempre, la morte glielo strappa di mano». Come suggerisce Moltmann, c’è l’«aspettarsi» (er-warten) sempre qualcosa, tipico della cupidigia, e c’è un «tenersi pronti» (auf-warten) proprio della speranza.

GIANFRANCO RAVASI

Gabriella Airaldi, Essere avari, Marietti 1820, pagg. 212, € 15,00.

Jürgen Moltmann, Pazienza, misericordia e solidarietà, Dehoniane, pagg. 127, € 13,00.