IL COCCIO DI GIOBBE

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Aveva accettato di fare un breve dialogo con me, da trasmettersi poi in televisione, nella sua casa nel centro di Milano. Era, credo, l’inizio del 1979 e io avevo da poco pubblicato un vasto commento al libro di Giobbe, un grandioso e un po’ misterioso capolavoro biblico fatto di 8343 parole ebraiche. Riccardo Bacchelli era ormai ultraottantenne e, poco tempo dopo, avrebbe iniziato un sofferto crepuscolo che l’avrebbe condotto in una clinica di Monza ove morirà nel 1985 in ristrettezze economiche (chi non ricorda la «legge Bacchelli» per il sostegno degli artisti in difficoltà?). Avevo chiesto un incontro a lui non solo perché ero stato uno dei tanti suoi lettori (si pensi solo al fluviale Mulino del Po, un’imponente trilogia di romanzi storici composta tra il 1938 e il 1940).

         Ma desideravo parlare con lui anche perché nella sua ampia bibliografia affioravano spesso soggetti biblici, come Il pianto del figlio di Lais del 1945 o Lo sguardo di Gesù del 1948. Tra questi, ora dimenticato, spiccava Il coccio di terracotta del 1966, una curiosa invenzione della seconda vita di Giobbe, dopo che – conclusa la drammatica vicenda che aveva tormentato il suo corpo, i suoi affetti e soprattutto la sua fede – era ritornato ad essere uno sceicco orientale (egli non era ebreo ma dell’ignota terra di Us) con una nuova dotazione di 14000 pecore, 6000 cammelli, 1000 paia di buoi, 1000 asine, 7 figli e 3 affascinanti figlie, Colomba, Cassia e Argentea. Così almeno si legge nella parabola finale adottata come cornice dell’opera biblica, sulla base di un antico modulo narrativo, estrinseco rispetto all’incandescenza del poema vero e proprio.

         Nel romanzo, ma anche in quel nostro dialogo, che ancor oggi ricordo con intensità, Bacchelli si poneva un interrogativo: riesce una seconda paternità del protagonista a cancellare il dolore e il vuoto dei figli morti nella precedente bufera che aveva devastato la sua vita? La trama dello scritto si raggrumava proprio attorno a questo nodo insoluto del ricordo amaro e incancellabile del passato. Paradossalmente in Giobbe ormai ritornato felice sbocciava la nostalgia proprio del tempo precedente pur tragico, del Dio amato, ma crudele e incomprensibile. E quel passato era simbolicamente incarnato nel coccio di terracotta col quale Giobbe allora si grattava le piaghe purulente, mentre giaceva emarginato su un cumulo di immondizie. Un coccio conservato come una reliquia, anche quando l’orizzonte si era squarciato e Dio l’aveva colmato di beni, e saziato di giorni felici fino a 140 anni di vita, con figli, nipoti e possedimenti, ma sempre con quel buco nel cuore, la morte dei primi 7 figli e delle 3 figlie.

         Abbiamo introdotto questa divagazione per presentare un nuovo – tra le centinaia apparse nei secoli – commentario a questo terribile e affascinante poema biblico, da molti autori, anche non credenti, considerato come uno dei dieci libri da presentare quale sorta di carta d’identità della nostra umanità a un ipotetico popolo alieno che dalla galassia raggiungesse il nostro pianeta. Certo, per tutti quest’opera è inchiodata nella mente come un canto, anzi, un urlo di dolore. Questo vocabolo ha alla base una radice indoeuropea (del- o dal-) che rimanda al colpo di ascia nel legno, al martello che forgia il ferro nel fuoco, alla lama che incide e ferisce. Non per nulla spontaneamente diciamo di essere «trafitti» da una sofferenza o che il cuore ci si spacca nel petto. Ebbene, è questo il significato ultimo del libro di Giobbe? È solo una tragica elegia, intrisa di lacrime e proteste, un’incessante lamentazione lanciata verso un Dio imperatore impassibile, relegato nei suoi cieli dorati, il Shaddaj in ebraico, un termine reso con «Onnipotente», ma che rimanda nella radice etimologica semitica forse a una montagna invalicabile?

         Per trovare una risposta è necessario prendere in mano un commento come quest’ultimo elaborato da un esegeta docente alla Facoltà teologica romana «Marianum», Stefano Mazzoni. Già in partenza si deve notare che gli studiosi si divaricano nell’identificazione del genere letterario (tragedia, epopea, dibattimento giudiziale, lamentazione drammatica, disputa sapienziale) e discutono sulla sua struttura certamente sottoposta a tagli e inserti, sulle sue coordinate storico-cronologiche, sulla sua lingua originale e rovente. Ma soprattutto s’accapigliano sul significato ultimo dell’opera, ossia sulla sua corretta ermeneutica. Quest’ultima è stata in passato lungamente impostata in chiave antropologica, tanto da allegare il libro al dossier sempre rovente della letteratura di tutti i tempi e luoghi che s’accanisce nell’assedio alla cittadella del dolore, tentando di aprirvi qualche breccia così da installarsi nel suo centro oscuro e dipanarne la mappa aggrovigliata.

         È indiscutibile che questo sia il terreno da cui si muove Giobbe, ma lo fa stracciando tutti i protocolli che gli amici teologi (tra i quali si aggrega in finale un quarto personaggio, probabile indizio di un remake redazionale) le cui parole consolatorie, basate sulla «razionalità» del dogma retributivo «delitto-castigo», quindi di un dolore punitivo di un peccato, sono da lui liquidate come «decotti di malva». Placebo impotenti a lenire e tantomeno a giustificare lo scandalo del soffrire, soprattutto se innocente, e comunque l’assurdo dell’«eccesso del male» (così il filosofo Philippe Nemo). La traiettoria dei dialoghi di Giobbe con questi amici si rivela un confronto tra sordi e punta a una ben diversa meta, raggiunta attraverso un’escalation di accuse lanciate dal grande sofferente verso l’alto, cioè contro Dio, in un’incandescenza che rasenta la blasfemia e che forse ha costretto, in qualche pagina del testo a noi pervenuto, la mano di un antico censore a intervenire.

         Il cammino del grande sofferente si manifesta sempre più erto perché punta verso Dio stesso che si rivela paradossalmente imputato ma anche giudice a causa della sua onnipotenza, in una aporia insanabile agli occhi di Giobbe. Come nota Mazzoni, nella linea di un’interpretazione ancor fluida ma ora dominante, si tratta di un percorso di fede nel suo tracciato più arduo che culmina nella finale deposizione processuale che Dio accetta di emettere ma nella forma sconcertante eppur folgorante di una serie di interrogativi (cc. 38-39). Essi oppongono alle legittime domande «razionali» di Giobbe un progetto (‘esah in ebraico) «metarazionale» ma non irrazionale. Il confronto finale rivela forse il disegno dell’intero poema: «la ricerca dell’autentico volto di Dio e l’incontro con il suo mistero costituiscono il cuore dell’opera e il punto di convergenza di tutte le tematiche», anche quelle antropologiche.

         Attorno a questo incrocio che avviene attraverso il canale gnoseologico-epifanico superiore della rivelazione divina, ben sintetizzato nelle ultime parole di Giobbe – «io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5) – si avvolge e svolge l’intero itinerario del libro biblico che l’esegeta scava e interpreta nel suo commento. Non è possibile in questa sede verificarne le opzioni, frutto di un’analisi non facile, considerata la mobilità semantica del lessico giobbico che annovera più di un centinaio di hapax, delle ombre di senso che striano almeno un terzo del dettato, dell’abbondanza tematica, della citata inafferrabilità globale. Pur essendosi esercitata l’esegesi in modo molto sofisticato, le pagine di questo unicum letterario e teologico meritano ancora la fulminante definizione di san Girolamo: «Spiegare Giobbe è come tentare di trattenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano».

GIANFRANCO RAVASI

A cura di Stefano Mazzoni, Giobbe, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), pagg. 319, € 38,00.

Pubblicato col titolo: Il coccio di Giobbe pieno di domande, su IlSole24ORE, n. 71 (17/03/2021).