JUAN DE LA CRUZ

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Vivo sin vivir en mí / y de tal manera espero, / que muero porque no muero. Ho aperto a caso una pagina del volume sontuoso e impeccabile che raccoglie le Opere complete di quello straordinario personaggio, mistico e scrittore, che è stato san Giovanni della Croce, Dottore della Chiesa e patrono dei poeti di lingua spagnola. Non ho tradotto quel tristico perché è così trasparente da non esigere versione, nonostante il suo andamento ossimorico. In filigrana s’intuisce l’anelito di Paolo, l’Apostolo: «Per me il vivere è Cristo e il morire è un guadagno… Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo» (Filippesi 1,21.23).

         I versi citati sono l’incipit dell’ottava delle 15 Poesie di Juan de la Cruz, nome da carmelitano scalzo assunto da Juan de Yepes, nato nel 1542 nei pressi di Avila, patria di un’altra figura imponente nella mistica e nella letteratura ispanica del «siglo de oro», s. Teresa di Gesù, la cui vicenda religiosa s’incrocerà con quella di Giovanni. La trama biografica di quest’ultimo fu particolarmente complessa e travagliata, coinvolta in colpi di scena (persino il carcere), con tensioni e divisioni all’interno dell’Ordine del Carmelo. Il sipario sulla sua esistenza scese il 14 dicembre del 1591, sul suo corpo malato e su una gelida solitudine umana, causata dall’ostilità del suo stesso superiore, mentre però la sua anima brillava della luce dell’amore divino i cui raggi erano capaci di trafiggere e trapassare anche la «notte oscura» che lo avvolgeva.

         Come è noto, con questo simbolo s’intitola uno dei suoi capolavori, concepito in dittico con un altro gioiello mistico-letterario, la Salita al Monte Carmelo. Scriveva: «Questa felice notte, benché oscuri lo spirito, non lo fa se non per dargli luce di tutte le cose; benché lo umili e lo renda miserabile, non è se non per esaltarlo e innalzarlo; benché lo impoverisca e lo svuoti da ogni possesso e affetto naturale…, gli dona un’illimitata libertà di spirito in tutto». Non è la prima volta che mettiamo al centro della ribalta della nostra pagina di saggistica religiosa il volto di Giovanni della Croce. Ora, però, lo facciamo con una sottolineatura speciale.

         Saremmo, infatti, felici se molti – anche non credenti ma curiosi di inerpicarsi lungo i percorsi d’altura della genialità spirituale – potessero attraversare questa raccolta integrale affidata alla cura del carmelitano Silvano Giordano (con l’introduzione di Federico Ruiz), che li accompagnerà nella lettura degli scritti sanjuanisti con una costante guida in cui il rigore filologico s’intreccia con la fioritura del fascino del testo originario. D’altronde, è noto quanto l’opera, il pensiero, la bellezza di quelle pagine abbia già conquistato una legione di studiosi, tra i quali citiamo solo il saggio fondamentale di Jean Baruzi (1924) o la sintonia di un importante autore spagnolo come Dámaso Alonso (la bibliografia che suggella questa opera omnia si allarga per ben 68 pagine, articolate in 31 sezioni specifiche!).

         Sì, perché le opere di Giovanni si ramificano in arborescenze complesse, ora verdeggianti ora spinose. Tanto per esemplificare, alle prime appartengono le opere poetiche, come quel vertice supremo che è il Cantico spirituale, giunto a noi in due versioni successive, sbocciato dalle 1250 parole frementi d’amore del biblico Cantico dei cantici ed esploso in nuovi mirabili cromatismi lirico-spirituali. Giustamente il traduttore ha lasciato, in sinossi, l’originale spagnolo la cui musicalità è inarrivabile e si stinge e talora estingue nel pallore della versione. Citatissimo è l’avvio che è la conferma di quanto dicevamo, come siamo tentati di dimostrare: ¿Adonde te escondiste, / Amado y me dejaste / con gemido? / Como el ciervo huiste, / habiéndome herido; / salí tras ti clamando, / y eras ido. Versi che si fanno flebili in quel «rovescio di un arazzo» che è la traduzione (l’immagine è del grande Cervantes): «Dove ti nascondesti, Amato, e in pianto mi hai lasciato? Come il cervo fuggisti, avendomi ferito; ti uscii dietro gridando, eri sparito».

         Altrettanto potente è, però, Juan de la Cruz quando affronta l’evocata Salita al Monte Carmelo, un testo spinoso come fa notare il curatore che descrive lo spaesamento del lettore che incespica nel «mondo dei fenomeni mistici, nella poca sensibilità per i valori umani, a causa della durezza dei precetti ascetici, per lo stile scolastico infarcito di citazioni bibliche». Eppure, se ci si lascia condurre dalla guida dell’interprete che ne estrae la struttura e il progetto teologico, davanti al lettore si squarciano l’abisso della fede, il vuoto della speranza, la purezza dell’amore, ritmati dalla celebre antitesi del «Tutto-Nulla». A margine ricordiamo che lo stesso Giovanni disegnerà su un foglio una mappa micrografica del Monte con tutte le sue tappe metaforiche. Ma, come si è detto, l’ideale continuazione di quell’ascesa è nell’altro apice mistico, la Notte oscura.

         È noto che l’eros sfolgorante e la cupa tenebra occhieggiano non solo nel Cantico dei cantici biblico, ma anche nella tradizione mistica classica. Ma la «notte oscura», così come l’ha ricreata Juan, è di un’originalità assoluta, anche nella stessa planimetria strutturale. La matrice è nelle iniziali otto «strofe dell’anima» che reggono il successivo scritto in prosa, simile a un commento. «In una notte oscura / con ansie, in amori infiammata, … / uscii non notata / stando già la mia casa addormentata»: questa è la prima strofa, declinata al femminile, la maschera indossata per la personificazione dell’anima, sulla scia sempre della donna-sposa del Cantico biblico. La fiaccola che permette di inoltrarsi nella tenebra è la contemplazione; e il transito in quel pianeta oscuro, che è la duplice notte dei sensi e dello spirito, ha come approdo la catarsi.

         Scrive, infatti, il mistico: «Bisogna sapere che, affinché un’anima arrivi allo stato di perfezione, di solito deve prima passare attraverso due generi principali di notti, che gli spirituali chiamano purificazioni dell’anima». Naturalmente molteplici sono i percorsi che l’anima compie spesso a tentoni, itinerari scanditi da variazioni continue di intensità, di ritmo, di durata, sempre col ricorso a reazioni di taglio paradossale e ossimorico, come nel caso del tema suggestivo della «passività attiva». Secoli prima della psicoanalisi, stando su un punto di osservazione diverso, questo autore scandaglia con sonde di profondità le camere oscure dello spirito, ne scova le «caverne» più remote, ma soprattutto vi getta il riflettore della luce trascendente. Non si tratta più di stilare un referto, ma di trascinare l’anima verso un oltre divino, quell’amore che «guida e muove l’anima e la fa volare al suo Dio attraverso il cammino della solitudine, senza che ella sappia come e in quale modo».

         Sono queste le ultime righe della Notte oscura, che è suggellata da un solo verso finale sospeso: «Nella notte felice». Anche noi ci fermiamo qui, lasciando tra parentesi gli altri testi raccolti nel volume, sperando di aver stimolato a tentare questa avventura che coniuga un’esperienza ineffabile al gioco dei simboli, il tessuto delle idee teologiche alla fragranza delle citazioni bibliche, la metarazionalità mistica all’ardore del sentimento, la poesia alla speculazione. È interessante che nell’introduzione generale il citato e compianto Federico Ruiz, consapevole delle difficoltà che «rendono ardua la lettura» di Giovanni della Croce, abbia approntato un didascalico «metodo di lettura» secondo sei norme interpretative suggerite dallo stesso autore (sintonia, sobrietà, creatività, integralità, sapienza ed esistenza).

GIANFRANCO RAVASI

Giovanni della Croce Dottore della Chiesa, Opere complete, Edizioni OCD (www.edizioniocd.it), Roma, pag. 1470, € 42,00.

Pubblicato col titolo: Giovanni della Croce mistico in ascesi, su IlSole24ORE, n 16 (17/01).