DUELLO E DUETTO

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«Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa contendere con te, eppure vorrei rivolgerti solo una parola sulla giustizia: perché la via dei mascalzoni è prospera e perché tutti i traditori sono tranquilli?». Senza tanti fronzoli lo sventurato profeta Geremia (12,1) non esita a prendere di petto Dio per «contendere» con lui, in pratica per chiamarlo in causa attorno a una pietra di scandalo che da sempre ha fatto inciampare i credenti. Il termine tecnico ebraico del «contendere» è rîb, «litigare, fare causa, denunciare», ed è alla base di un vero e proprio genere letterario che paradossalmente registra anche il suo inverso: il Signore stesso può imbastire una causa contro Israele, denunciando l’ipocrisia della sua religiosità, manto di copertura della sostanziale immoralità. È, ad esempio, il caso di un paragrafo di Isaia (1,10-20), in cui Dio lancia un duro j’accuse, e alla fine propone: «Su, venite e discutiamo».

         Sempre in questo territorio rovente della reciproca contestazione è da collocare un intero capolavoro biblico, il libro di Giobbe, un incessante esposto giudiziario perché l’Accusato divino accetti di contendere con l’accusatore umano umiliato, all’interno di una sede processuale neutra. Naturalmente con una sconcertante sensazione: in quell’assise, quale giudice può essere superiore e imparziale davanti all’onnipotente Imputato supremo? Questi pochi spunti di teodicea (la critica e la difesa di Dio di fronte al male è una delle forme archetipiche della teologia) sorgono leggendo un saggio piuttosto forte e coinvolgente come il tema con cui si confronta.

         In quelle pagine dal titolo emblematico Discutere in nome del cielo si presentano in due, Ugo Volli, un importante semiologo e filosofo del linguaggio, capace di inoltrarsi con incisività e acutezza anche sulle strade dei media, e Vittorio Robiati Bendaud che, oltre a essere un artefice del dialogo ebraico-cristiano sulla scia del suo maestro, il grande rav Giuseppe Laras, è anche il coordinatore di un Tribunale rabbinico. Gli sguardi dei due autori sono, quindi, differenti ma convergenti e il risultato, pur nella sua complessità, è capace di catturare il lettore credente o no, che si è talora sentito avvolgere dalle reti di una simile disputa, soprattutto quando incrocia sul suo percorso esistenziale il volto tenebroso del male e della sofferenza, ma anche la diversità più o meno aggressiva dell’altro.

         Il denominatore di base dell’equazione dialettica è ovviamente il dialogo, una categoria ardua da praticare, tant’è vero che prevalente è l’imboccare la via dello scontro o del monologo. Volli distende sul tavolo il ricco ventaglio storico del dialogo così come si configura nelle Scritture ebraiche, nella classicità greca, nella disputa rabbinica e nell’orizzonte della modernità. È una sorta di utile storia del tema e l’indiretta e preziosa grammatica di un esercizio capitale nella relazione umana (pensiamo a quanto ha scritto al riguardo, tra i tanti, Lévinas che giustamente Volli pone a suggello della sua galleria novecentesca dei vari Husserl, Heidegger, Buber).

         Delineato il profilo di questo lineamento antropologico fondamentale che ha modelli straordinari nella stessa Bibbia (l’incipit della creazione è ritmato su un tormentato dialogo tra Creatore e creatura e tra l’uomo e il serpente, e l’avvio della storia della salvezza è nel serrato confronto tra Dio e Abramo), ecco Robiati Bendaud, pronto a mettere in pratica quella grammatica con una vivace sequenza di «esercizi» esemplificativi. È come se si facessero salire sulla ribalta una sequenza di attori, alcuni alonati dell’aureola oscura o luminosa dalla stessa Bibbia (Caino e Noè), altri espressione del primo confronto ebraico-cristiano (Giustino e Trifone), che è poi ampiamente declinato nelle sue tipologie storiche.

         Molti lettori si troveranno, così, in mezzo a noti contrasti oscillanti «tra rifiuto e riconoscimento» (le crociate, Abelardo, forse anche Dante col rabbino romano Manoello, esule pure lui presso la corte veronese di Cangrande della Scala), o marginali eppure significativi, come la «disputa di Barcellona» del 1263 o quel curioso «giardino degli intelletti», coltivato da un antecessore del più celebre Maimonide, il giudeo-arabo Ibn al-Fayyûmi, e tanti altri autori medievali. Il tutto per riportarci all’oggi ove s’irrobustisce sempre di più la mala pianta dello scontro urlato, delle paure codarde, dell’antisemitismo persino declamato e del cristianesimo perseguitato.

         Abbiamo solo fatto balenare qualche colore di un libro policromo, scritto, certo, da ebrei, ma desiderosi di abbattere «il muro di separazione» che si erge tra le due culture e le due fedi, per usare una famosa immagine dell’apostolo Paolo (Efesini 2,14) senza però sincretismi. Un libro che – considerato il tema – potrebbe essere allargato e ricomposto anche da mano cristiana, ritornando al punto da cui siamo partiti, la disputa con Dio. Praticata dal giudaismo (pensiamo al contadino che si presenta alla corte rabbinica per incriminare Dio nel racconto di Zvi Kolitz intitolato Yossl Rakover si rivolge a Dio), è sperimentata anche da Gesù col suo stesso orizzonte nativo, tanto da costellare i Vangeli col genere della «controversia», soprattutto alle soglie della sua finale contestazione processuale. Con un motto, potremmo dire che l’appello conclusivo è a passare dal duello al duetto, in cui la diversità permane ma è armonia.

GIANFRANCO RAVASI

Vittorio Robiati Bendaud – Ugo Volli, Discutere in nome del cielo, Guerini e Associati, pagg. 235, € 20,00.