LA SAPIENZA DI SALOMONE

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È stato un delizioso esercizio «scolastico»: nella sosta estiva ho potuto tradurre la Sapienza di Salomone, un libro biblico scritto in un greco piuttosto sofisticato e ibridato di allusioni e ammiccamenti alla classicità greca, sorto nella diaspora giudaica di Alessandria d’Egitto, alle soglie dell’era cristiana (forse attorno al 30 a.C.). Lo pseudonimo rimanda al celebre re ebraico vissuto idealmente per quasi dieci secoli. A lui, infatti, che ha regnato nel X sec. a.C., sono attribuiti i Proverbi, una raccolta eterogenea per contenuti ed epoche storiche. A lui è assegnato quel gioiello poetico amoroso che è il Cantico dei cantici, sicuramente molto più tardo. Persino Qohelet si autoproclamerà «figlio di Davide», come lo era Salomone, e siamo attorno al III sec. a.C.

         Anche l’anonimo autore del libro della Sapienza si ammanta della gloria e della saggezza di quel sovrano sulle cui labbra viene posto il programma accademico del Museon, una sorta di «università» di Alessandria. Dichiarava appunto il nostro Salomone greco: «È lui che mi ha elargito la conoscenza non ingannevole della realtà, così da approfondire la struttura del cosmo e la carica di energia degli elementi, il principio, la fine e il punto di mezzo del tempo, l’alternarsi delle fasi astronomiche e l’avvicendarsi delle stagioni, i cicli annuali e la posizione delle costellazioni, la natura degli animali e l’istinto delle bestie selvatiche, la potenza degli spiriti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle specie vegetali e la proprietà delle radici. Ho conosciuto i segreti e le evidenze della realtà perché me li ha svelati la Sapienza, artefice di tutte le cose» (7,17-21).

         L’editrice Il Mulino ha voluto che nella collana «La voce degli antichi», dedicata a sguardi su testi di autori classici, entrasse anche quest’opera deuterocanonica, relegata tra gli apocrifi dal mondo protestante. Costruito a trittico, lo scritto di questo Pseudo-Salomone affronta innanzitutto un tema squisitamente greco, quello dell’immortalità, l’athanasía/aphtharsía. È la testimonianza di uno spirito «ecumenico», aperto al dialogo interreligioso con l’ambiente ellenistico. Tuttavia la consonanza con la classicità non impedisce che la proposta del nostro autore risulti originale, rivelando in tal modo un interessante equilibrio tra ragione e fede. Quella da lui delineata, soprattutto nei primi cinque capitoli dell’opera, è infatti una immortalità «beata»: essa non è solo e non è tanto la conseguenza logica di una qualità metafisica della psychê, dell’anima, cioè della sua spiritualità e quindi incorruttibilità, come insegnava la dottrina platonica del Fedone, bensì essa è dono, è grazia divina.

         Questo è dimostrato dalla qualità squisitamente teologica di tale immortalità. Essa, infatti, implica la comunione piena con Dio, conseguenza dell’intimità che il fedele già godeva durante l’esistenza terrena giusta. Non per nulla si afferma che «la giustizia è radice di immortalità» (1,15). Questo status della persona moralmente fedele è suggellato dall’episkopê, cioè dalla «visita-giudizio» che Dio compie a suggello della storia. Gli empi, invece, vengono relegati nell’Ade, lo she’ôl, gli inferi biblici, che non è più la dimora indifferenziata dei defunti, ma che può essere sostanzialmente identificabile con l’«inferno» formalizzato poi nella tradizione cristiana.

         La novità rispetto al retroterra biblico e giudaico si rivela anche in altri approcci.   La donna sterile e l’eunuco, considerati dall’antico Israele quasi come un ramo secco, vengono ora additati come modelli esemplari a causa della giustizia da loro praticata e, perciò, sono rappresentati come coloro che riceveranno un posto qualificato nell’immortalità beata. Similmente il giusto morto prematuramente, considerato come un maledetto dalla tradizionale dottrina retributiva biblica che nella vita lunga e patriarcale intuiva una ricompensa celeste, è invece dalla Sapienza esaltato come un prediletto da Dio.

         Il nostro Salomone confessa poi che «L’immortalità deriva dal legame genetico con la sapienza» (8,17). Entra in scena, così, la seconda tavola – nei cc. 6-9 del libro – dell’ideale trittico, dominata dal tema della sapienza, un altro dono divino di cui l’autore si sente investito. Si tratta di una visione antropologica, cosmologica e pedagogica già presente nella letteratura biblica, sorta da una matrice soprattutto egizia che proprio con Salomone aveva fatto la sua comparsa in Israele. In sintesi, la sapienza – personificata come una donna amata – è contrassegnata da una ricerca «simbolica» e, quindi, globale sull’essere e sull’esistere. Come dice il termine latino sapientia, si tratta innanzitutto di «avere sapore», così che l’intelligenza divenga calorosa, capace di unire in sé mente e cuore, teoria e pratica, conoscenza e passione.

         Lasciamo al lettore di gustare il terzo quadro, quello più imponente, un’originale meditazione poetica sull’esodo di Israele dall’Egitto (cc. 10-19). Lo scontro tra Israeliti ed Egiziani viene interpretato come l’eterna lotta tra bene e male, destinata però a un approdo luminoso. Esso è affidato a una sorta di affresco finale ove appare un paesaggio verdeggiante, con cavalli che pascolano sereni e agnelli che saltellano gioiosi, un dipinto accompagnato da una sorprendente metafora musicale. Infatti gli elementi naturali «si armonizzavano tra loro, come nella cetra le note variano secondo la specie del ritmo, pur conservando la stessa tonalità» (19,18).

GIANFRANCO RAVASI