GREGORIO DI NAZIANZO E GIOVANNI CRISOSTOMO

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Compose più di 17000 versi, attirandosi la critica un po’ irriverente di uno studioso che li paragonava all’esercizio dei cruciverba per ingannare il tempo. In realtà, in questo profluvio poetico si scoprono fremiti e momenti felici che rispecchiano l’interiorità e persino la psicologia dell’autore, capace di svelare una sensibilità che lo può accostare anche al lettore moderno. Stiamo parlando di Gregorio di Nazianzo, uno della triade dei grandi Padri della Chiesa di Cappadocia, Basilio il Grande e suo fratello Gregorio di Nissa.

         Siamo nel IV secolo e Gregorio nasce da un padre omonimo, vescovo di quella città, che lo ordinerà sacerdote nel 361 e a cui subentrerà per poco nel governo di quella Chiesa, dopo essere stato ordinato vescovo nel 372 da Basilio che l’aveva destinato a un’umile borgata poco distante da Nazianzo, Sàsima, un centro carovaniero che egli mai raggiunse. Oltre all’opera poetica e ai suoi discorsi, Gregorio ci ha lasciato 249 lettere, forse non tutte autentiche. Abbiamo ora l’occasione di conoscerne 53 attraverso un saggio molto raffinato di Nicola Russo che ha selezionato quelle che sono state scritte dal 359, al ritorno in patria dopo una lunga parentesi di studi ad Atene e alle soglie del suo presbiterato, fino alla consacrazione episcopale nel 372.

         È naturale che questo epistolario sveli memorie autobiografiche: tra l’altro, sette missive sono destinate a un ignoto amico laico di nome Filagrio. Tuttavia la ricerca di Russo punta in modo sistematico, pur seguendo la trama cronologica e valorizzando «la prosa smagliante» dell’autore, alla visione teologico-spirituale sottesa alle lettere. Nonostante la brevità – concisione, chiarezza e grazia erano il programma stilistico proposto a se stesso da Gregorio nell’Epistola 51 – si intuisce una sorta di filo conduttore non strettamente speculativo ma capace di intrecciare dottrina ed esistenza, non privandosi anche di introdurre qualche spezia ironica, soprattutto ricorrendo ai testi biblici.

         Egli sa intrecciare teoria e prassi, contemplazione e azione, ascesi e realismo, lógos ed evento, progetto divino e percorso umano. Per questo e per altre ragioni storico-critiche, è suggestivo tentare l’itinerario disegnato dall’analisi di questo dossier epistolare che in filigrana rivela anche la fatica di tenere uniti i binomi appena elencati all’interno della vicenda umana. Essa è, infatti, sempre inceppata da ostacoli e contraddizioni storiche che incrinano l’aspirazione a vivere quella spiritualità che Gregorio chiama in greco pásê philosophía, ossia un integrale amore per la sapienza, capace di raccordare reale e ideale.

         Rimaniamo ancora nell’Asia minore, ad Antiochia sull’Oronte (l’attuale città turca Antakya), sorta nel 300 a.C. circa. Là, a metà del IV secolo, nacque Giovanni Crisostomo, il cui epiteto era già un programma: in greco, «bocca d’oro» per la sua straordinaria facondia. L’avvio di una delle omelie che stiamo presentando ne è la testimonianza efficace: «Il vostro accorrere, la vostra espressione attenta, gli spintoni che vi date per affrettarvi a conquistare i posti più vicini, dove la nostra voce vi giunga più chiara, il fatto che non vogliate andarvene, anche se siete in mezzo alla calca, finché non termini questo spettacolo spirituale, gli applausi, le acclamazioni e, in una parola, tutti gli altri atteggiamenti simili sono la prova del fervore che è nella vostra anima e della vostra buona disposizione all’ascolto».

         La biografia di Giovanni era stata piuttosto tormentata, con punte di ascesa stellare, come la nomina a vescovo di Costantinopoli nel 398, ma anche con cadute abissali, come l’esilio su ordine imperiale nel 404, che lo costrinse a vivere – secondo la sua stessa testimonianza – nel «posto più deserto del mondo», ossia in una cittadina armena, prima, e sulla costa orientale del mar Nero, poi. La scorta armata non gli dava tregua, obbligandolo a continui traslochi. È durante una di queste marce che egli, stremato, muore nel Ponto nel 407. Secondo una tradizione le sue spoglie – dopo essere state traslate da Costantinopoli – riposerebbero ora nella cappella del Coro della Basilica di S. Pietro a Roma.

         Da vero «crisostomo», il genere che domina nei suoi scritti è quello omiletico, ed è ciò che attestano anche le sue Omelie sul vangelo di Giovanni che Domenico Ciarlo ora traduce in 59 degli 88 sermoni pronunciati. La tecnica retorica è netta: la struttura di ogni discorso è bipartita con una parafrasi e un commento fedele alla lettera del testo giovanneo selezionato e con una successiva applicazione parenetica. Ci si imbatte persino in frequenti rilievi di carattere grammaticale, mentre nelle applicazioni morali, l’asse teologico è quello della libertà umana che si esplica nell’adesione di fede e nella pratica operosa. C’è, però, un soggetto reiterato e accentuato con passione dal predicatore: la tirannia delle ricchezze che rende schiavi e disumani. Egli ne esalta, però, la qualità sociale, sia nella retribuzione per il lavoro compiuto, sia nell’esercizio dell’elemosina. Critico contro la filosofia pagana e gli eretici anomei, una sorta di protorazionalisti, Crisostomo rimane veramente un «eccellente atleta» nell’oratoria cristiana: si legga lo straordinario prologo alla prima omelia!

GIANFRANCO RAVASI

Nicola Russo, L’epistolario di Gregorio Nazianzeno dal presbiterato alla consacrazione episcopale, Nerbini, pagg. 311, € 60,00.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Giovanni, Città Nuova, vol. 1, pagg. 299, € 30,00; vol. 2, pagg. 294, € 30,00.