FIAT LUX

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C’è un dato biografico significativo nell’autore che stiamo presentando: non è la solita nota accademica, che pure esiste, bensì una caratteristica strettamente personale. Si legge, infatti, nella quarta di copertina: «Come persona non vedente è impegnato a favorire l’accesso dei disabili alle nuove tecnologie, viste come esperienza inclusiva». Ora l’elemento apparentemente paradossale è che Alessio Conti proponga proprio un «piccolo trattato sulla teologia della luce». Lo intitola logicamente con la celebre prima parola divina dell’atto creativo secondo il libro biblico della Genesi, quel Jehî ’ôr ebraico, «sia la luce», reso nel latino Fiat lux, divenuto un motto proverbiale.

Il percorso delineato potrebbe essere definito per certi aspetti “impressionistico” perché, se è vero che si toccano i vari colori dello spettro teologico della luce, a partire da quelli delineati dalla stessa Bibbia nelle sue molteplici iridescenze, procedendo verso le questioni più sistematiche legate alla cristologia, all’escatologia, alla pneumatologia, alla liturgia, Conti nel suo itinerario coinvolge angoli di visuale più inattesi. Così, ad esempio, ci si imbatte spesso nel Manzoni degli Inni sacri, un autore che è convocato in appendice anche col secondo coro dell’Adelchi. Non manca naturalmente il coinvolgimento di sant’Agostino con una sua “piccola gemma” desunta da un suo scritto minore sulla «fede nelle cose che non si vedono», ma anche con le folgorazioni dei Soliloqui.

Il genere  del “trattato” è, in realtà, travalicato nei suoi canoni più rigorosi anche quando si apre uno squarcio sull’ora di religione nelle scuole, un ambito nel quale Conti esercita il suo compito di docente. Similmente all’apparire della didattica si accompagna l’emergere di spunti pastorali ed esistenziali e non manca anche un autoritratto quando l’autore rimanda a quella «miniera vocale» che è YouTube, nella quale egli «scava con i polpastrelli curiosi di notizie ed esperienze sempre nuove». Infine, c’è la filigrana permanente della sua passione che trasforma radicalmente questo autodefinito “trattato” in una sorta di racconto di un credente che trasfigura la sua disabilità in parabola: non per nulla la luce diventa metafora dell’amore caldo divino e umano, mentre il buio è il gelido inchiodarsi nel non senso.

Raccogliendo quest’ultimo filo doppio, luminoso e oscuro, vogliamo aggiungere una nostra breve nota riguardante la classica dialettica luce-tenebre, un tópos soprattutto dell’escatologia, come si legge ad esempio nell’Apocalisse. Infatti, nella Gerusalemme celeste perfetta «non vi sarà più notte e non ci sarà più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio la illuminerà» (22,5). Già il profeta Zaccaria, quando descriveva l’approdo finale della storia, lo raffigurava come «un unico giorno: non ci sarà più né giorno né notte, e verso sera risplenderà di nuovo la luce» (14,7). Nella vicenda storica, invece, quel ritmo quotidiano tra luce e oscurità permane, ed è ovviamente un segno di natura etico-metafisica. Ricordiamo che l’atto creativo divino, espresso attraverso l’immagine della “separazione”, voleva mettere ordine nel “disordine” del nulla: «Dio vide che la luce era cosa buona/bella e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte» (Genesi 1,4-5).

Significativa è la definizione della luce come realtà tôb, un aggettivo ebraico che è contemporaneamente etico-estetico-pratico e che, perciò, designa il «buono, bello e utile». Per contrasto, allora, la tenebra è la negazione dell’essere, della vita, del bene, della verità. Per questa ragione, mentre lo zenit paradisiaco è immerso nello splendore della luce, il nadir infernale è avvolto dall’oscurità, come si legge nel libro di Giobbe ove gli inferi sono descritti come «il paese delle tenebre e delle ombre mortali, il paese della caligine e dell’opacità, della notte e del caos, in cui la stessa luce è tenebra fonda» (10,21-22).

È in questa linea che l’antitesi luce-tenebre si trasforma in un paradigma morale e spirituale. È ciò che appare in molte culture e che ha un suo apice nell’inno-prologo del Vangelo di Giovanni ove la luce del Verbo divino «splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (1,5). E più avanti, nello stesso quarto Vangelo, si legge: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che non la luce … Chi fa il male odia la luce e non viene alla luce … Chi fa la verità viene invece verso la luce» (Giovanni 3,19-21). Anche nella comunità giudaica attiva dal I sec. a. C. fino al 70 d.C., scoperta a Qumran lungo le sponde occidentali del mar Morto, un testo descrive «la guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre», seguendo un modulo simbolico costante per definire il contrasto tra bene e male, tra eletti e reprobi.

Questo dualismo si riflette in quasi tutte le religioni secondo tipologie diverse come l’opposizione angeli-demoni o i princìpi antitetici yang-yin, le divinità in lotta tra loro come il Marduk creatore e la Tiamat distruttrice le divinità delle cosmogonie babilonesi, o come Ormuzd (o Ahura Mazdah) e Ahriman della religione persiana mazdeista o come Deva e Ashura nel mondo indiano. La stessa dialettica acquista una nuova forma nell’orizzonte mistico, quando si introduce il tema della «notte oscura», perlustrata da quel grande autore spirituale e poetico del Cinquecento spagnolo che è stato san Giovanni della Croce. In questo caso il tormento, la prova e l’attesa della notte dello spirito è come un grembo fecondo che prelude alla generazione della luce della rivelazione e dell’incontro con Dio.

In sintesi potremmo condividere l’affermazione di Ariel nel Faust di Goethe: Welch Getöse bringt das Licht!, «Quale tumulto porta la luce!» (II, atto I, v. 4671). Essa è, infatti, un segno glorioso e vitale, è una metafora sacra e trascendente, ma non è inoffensiva perché genera tensione col suo opposto, la tenebra, trasformandosi in simbolo della lotta morale ed esistenziale. La sua irradiazione, quindi, dal cosmo trapassa nella storia, dall’infinito scende nel finito ed è per questo che l’umanità anela alla luce, come nel grido finale che si attribuisce allo stesso Goethe, Mehr Licht!, «più luce!»: in senso fisico a causa del velarsi degli occhi nell’agonia, ma anche in senso esistenziale e spirituale di anelito a un’epifania suprema di luce.

È quello che invocava l’antico poeta ebreo dei Salmi: «È in te, o Dio, la sorgente della vita, alla tua luce vedremo la luce!» (Salmo 36,10). Ma è anche quello che si rifletterà nell’islam soprattutto mistico (in particolare nella tradizione sufi e in al-Ghazali, pensatore dell’XI-XII sec.) che si baserà sulla sura XXIV del Corano intitolata An-nûr, «la luce», che nel v. 35 recita: «Dio è luce in cielo e sulla terra. La sua luce è come quella di una lampada collocata in una nicchia. La lampada è rinchiusa in un cristallo, è come una stella dallo splendore abbagliante ed è accesa dall’olio di un ulivo benedetto … Luce su luce è Dio. Egli guida chi ama verso la sua luce».

GIANFRANCO RAVASI

Alessio Conti, Fiat lux. Piccolo trattato sulla teologia della luce, ταυ editrice, Todi (Perugia), www. editricetau.com, pagg. 241, € 15,00.

Pubblicato su IlSole24ORE, (07/07/2019)