Dai fondamenti al fondamentalismo

Nessuno avrebbe immaginato una ventina d’anni fa che, a livello medio e persino popolare, si allineasse nella mente di tutti un particolare lessico arabo di natura omogenea, posto all’insegna del terrore. Si iniziò con gihad, letteralmente “sforzo, impegno”, divenuto, però, sinonimo di “guerra santa”, coi relativi combattenti mujahidin. Si conobbe, poi, la sharija, la legislazione sacrale, e persino la predicazione salafita, ossia quella dei maestri “antenati” ortodossi. Dominarono, poi, i talebani, cioè gli “studenti” di teologia, e imperò il termine al-Qaeda, “la base”, col suo alfiere Osama bin Laden, sostituito, poi, dall’Isis (“Islamic State of Iraq and Syria”) semplificato in Is e più correttamente in arabo Daesh (Dawla al-Islamiyya fi al-Iraqi wa sh-Sham), in pratica il califfato (“vicariato, successione” del Profeta) proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi a Mosul nel 2014. E molti sanno che in Somalia irrompono gli al-Shabaab, “i giovani”, e in Nigeria Boko Haram (“l’istruzione occidentale è un peccato”), figure lugubri che ammazzano senza pietà urlando Allah hu akbar!

Nell’accezione comune il filo conduttore di questo lessico è il termine “fondamentalismo” che di solito è spiegato come un “letteralismo” rispetto ai dettami del Corano o della tradizione islamica. In realtà, questo vocabolo è nato in ambito cristiano e precisamente nel 1895 in una ridente cittadina dello stato di New York, Fort Niagara. Là un Congresso Biblico protestante di matrice conservatrice aveva definito – contro la nuova teologia liberale e l’esegesi storico-critica e le tendenze secolari della società americana – i “fondamenti” intangibili della fede cristiana. Era una sorta di pentagramma teologico da assumere alla lettera, senza il ricorso ad alcuna ermeneutica sospettata di estenuarne la sostanza.

Quei “fondamenti” erano l’inerranza verbale della Bibbia, la divinità di Gesù Cristo, la sua nascita verginale, la dottrina della redenzione vicaria da lui operata a nostro favore con l’espiazione nella sua morte e, infine, la sua e nostra risurrezione corporale. Si delinearono, così, una letteratura teologica e pastorale impostata secondo  queste basi, una Bibbia commentata (la Scofield Reference Bible) e un’associazione internazionale. Ma l’evento più clamoroso che lanciò nell’opinione pubblica il movimento fu il cosiddetto “processo della scimmia”, celebratosi in sede giudiziaria nel 1925 a Dayton contro un docente sostenitore dell’evoluzionismo, John Thomas Scopes, denunciato dal leader dei fondamentalisti William Jennings Brian, che aveva prima esercitato la carica di Segretario di Stato sotto la presidenza Wilson.

L’approccio fondamentalista, che implicitamente era già adottato da altre religioni, acquisterà successivamente un rilievo socio-politico fino a raggiungere un apice rovente in questi ultimi decenni e non solo in ambito islamico ma anche in altre culture religiose (si pensi all’induismo o ai Testimoni di Geova e ad altri gruppi radicali ultra-conservatori). A delinearne le caratteristiche in modo molto vivace ma anche documentato è dedicato un volumetto che si legge quasi come una narrazione, nonostante l’articolazione rigorosa del tema. Sotto il titolo In nome di Dio (laddove, però, Dio è cassato con un segno rosso di cancellazione) un noto esegeta biblico, Sebastiano Pinto, docente all’Università Gregoriana di Roma, traccia una trama che intreccia analisi di taglio teologico, socio-culturale e persino psicologico con una serie di esemplificazioni molto incisive.

È evidente che la questione di base che si annoda attorno al fondamentalismo sia quella ermeneutica. Si concepisce l’“ispirazione” divina delle Scritture Sacre sostanzialmente come una dettatura materiale da parte di Dio. Si ignora che la Parola trascendente si comunica attraverso un mediatore umano e, quindi, con una lingua contingente, con un contenuto preciso e reale, sì, ma condizionato dalle coordinate storico-culturali. È ciò che, per analogia, accade con l’Incarnazione del Verbo divino nella “carne” dell’umanità, celebrata nel famoso prologo del Vangelo di Giovanni (1,14) e centro della fede cristiana. Senza un atto interpretativo che scevera l’autentico fondamento del messaggio biblico dal suo rivestimento verbale, si può cadere in una serie di paradossi che Pinto illustra in modo brillante.

Si pensi al concordismo, per cui si dovrebbe sostenere, sulla base della Bibbia, che l’universo fu costituito in sei giorni, che il diluvio avvolse tutto il pianeta e non una regione circoscritta evocata anche dai testi mesopotamici paralleli, che il moto della terra (in realtà del sole secondo le Scritture) fu bloccato dal «Fermati, o sole!» gridato da Giosuè durante una battaglia e così via. Ancor più rischioso sarebbe il ricorso alle pagine violente della Bibbia che propongono talora la guerra santa. È stato calcolato che in almeno 1000 passi anticotestamentari l’ira di Dio punisce, vendica, annienta; in 600 si descrivono stragi e guerre; in 100 è Dio stesso che ordina di procedere a esecuzioni capitali di persone. Cosa dire, poi, delle vere e proprie cialtronerie che vengono dedotte dai testi biblici sugli extraterrestri ufologici, simili ad angeli alieni? Le donne, poi, dovrebbero stare mute e sottomesse, se si assumono alla lettera certi moniti paolini, prescindendo dal contesto storico e sociale in cui essi sono collocati, così come accade per una certa concezione misogina o patriarcale dell’Antico Testamento. E ancora, cosa deve fare il fedele che vuole essere letterale nella sua obbedienza al testo, quando Gesù invita a cavarsi l’occhio che scandalizza?

Ripetiamo che l’interpretazione del testo è necessaria per acquisire la sua “verità” reale e non quella apparente. Il feticismo della lettera non assicura l’aderenza alla sostanza autentica che essa cela al suo interno. Negli stessi Vangeli, ad esempio, nel narrare gli eventi e detti di Gesù si procede già a un’interpretazione del messaggio sotteso e ad una sua attualizzazione, soprattutto alla luce della risurrezione-glorificazione di Cristo. In questa linea si spiega l’esistenza di quattro Vangeli, ciascuno con una sua prospettiva ermeneutica che ha incidenze anche storico-letterarie: si legga, ad esempio, la duplice differente redazione delle Beatitudini in Matteo (5,1-12) e in Luca (6,17-26). E, per concludere, risalendo al punto di partenza, il problema centrale dell’esegesi coranica sta proprio nel generale rigetto di ogni approccio ermeneutico al testo, ed è anche per questo che Pinto riserva il suo ultimo capitolo proprio al fondamentalismo islamico e alle sue ossessioni dagli esiti spesso drammatici.

GIANFRANCO RAVASI

Sebastiano Pinto, In nome di Dio. Dai fondamenti al fondamentalismo, Messaggero, Padova, pagg. 146, € 11,50.

Pubblicato col titolo: Fondamenta dei fondamenti, su IlSole24ORE, n. 82 (24/03/2019).