IL NATALE DI MARIA

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Leone I Magno, il papa che nel 453 riuscì a bloccare l’unno Attila, il «flagello di Dio», in un suo discorso natalizio polemizzava contro una prassi dei cristiani romani inficiata di paganesimo: «Prima di mettere piede nella basilica dell’apostolo Pietro a Natale, si soffermano sui gradini, voltano la persona verso il sole che sorge e, piegando il capo, s’inchinano verso il sole per rendere omaggio al suo disco splendente». Sulla scia di questa osservazione, si riesce a comprendere perché – quando a Roma sfrecciavano le trenta corse dell’Agone del Sole e, per il solstizio di dicembre, si accendevano nella notte fuochi che illuminavano la capitale, e il popolo all’alba s’inchinava al sole sorgente – la Chiesa abbia collocato la data (cronologicamente ignota) del Natale di Cristo. Anche sant’Agostino ammoniva i suoi fedeli africani di Ippona con questo appello: «Lasciamo pure che i pagani esultino, ma questo giorno per noi è santificato non dal sole visibile bensì dal suo invisibile Creatore».

         Si intuisce, allora, perché l’annuncio del concepimento verginale di Maria, la madre di Gesù, sia stato datato nove mesi prima dalla nascita, ossia il 25 marzo. Ed è da qui che noi partiamo per ricreare un profilo essenziale del Natale di Maria. In verità la letteratura esegetica (lasciamo stare quella profana e artistica che è sterminata) sulla manciata di versetti, 180 in tutto, dei cosiddetti «Vangeli dell’infanzia» di Cristo nei primi due capitoli di entrambi i Vangeli di Matteo e di Luca, è imponente. Lo è per la difficoltà di comprimere nello stampo freddo della classificazione dei generi, la ricchezza e la fragranza narrativa e teologica di quelle pagine. Esse intrecciano le memorie familiari e fin claniche legate ai tre attori dominanti, Maria, lo sposo Giuseppe e il bambino Gesù, con un’efflorescenza simbolica, cospargendo le pagine di citazioni e ammiccamenti biblici, e proiettando le varie scene, simili in realtà a sceneggiature, verso il futuro della biografia del neonato, fino alla sua morte e glorificazione finale.

         Ma ritorniamo al simbolico 25 marzo dell’annunciazione dell’angelo, il tradizionale messaggero celeste che irrompe nella modesta casetta di una sconosciuta ragazza di Nazaret, villaggio della Galilea mai altrove menzionato nella Bibbia. Escludiamo tutto il complesso discorso mariologico e cristologico e soffermiamoci brevemente solo sulle due frasi che Maria pronuncia in reazione all’annuncio della sua maternità speciale. È da notare l’estrema sobrietà della Madre Vergine nei Vangeli rispetto all’incessante loquela che nei secoli le hanno messo in bocca le apparizioni mariane. Nelle uniche fonti originarie evangeliche, lasciando a margine i testi apocrifi, Maria pronuncia solo 154 parole: se si escludono le 102 del canto del Magnificat (Luca 1,46-55), abbiamo una sequenza di dichiarazioni minime.

         Ed è ciò che accade con la prima che è in realtà una domanda rivolta all’angelo: «Come sarà questo, poiché non conosco uomo?» (Luca 1,34), sette parole greche in tutto. Maria obietta la sua situazione attuale anagrafica di promessa sposa che escludeva la convivenza e la «conoscenza» sessuale col suo fidanzato. Se in questa fase la donna si fosse trovata incinta a causa di un rapporto esterno, il futuro sposo aveva il diritto di ripudiarla, sottoponendola a una pesante azione penale e sociale, tenendo conto del contesto culturale e religioso di allora. Effettivamente Giuseppe avrebbe intenzione di procedere in questo senso, dopo aver scoperto lo stato interessante della sua fidanzata: è ciò che evoca Matteo nella parallela «annunciazione a Giuseppe» (1,18-25), segnalando però la svolta che anche a lui l’angelo imporrà.

         Maria rivela, dunque, una sua razionalità che esige una spiegazione di fronte a un annuncio non solo sorprendente, ma anche indecifrabile. Subentra, così, l’ampia articolazione della risposta teologica dell’angelo che sviluppa una sintesi accurata di cristologia. È solo a quel punto che la donna offre la sua accettazione, con la seconda frase, una replica di dieci parole greche (compresi gli articoli): «Ecco la serva del Signore: avvenga a me secondo la tua parola» (Luca 1,38). Si deve badare a non calcare – come è stato fatto nell’ermeneutica tradizionale – solo il pedale sulla pur reale umiltà di quell’autodefinizione «serva». Non si dimentichi, infatti, che «servo del Signore» è un titolo d’onore assegnato ad Abramo, Mosè, Giosuè, Davide e persino al Messia. La dichiarazione di Maria è, dunque, anche l’espressione dell’autocoscienza di dover espletare una missione rilevante nella storia della salvezza.

         Dobbiamo ora – per stare solo nel perimetro strettamente natalizio – giungere all’ipotetico e simbolico 25 dicembre, col parto a Betlemme: nelle poche righe del racconto di Luca (2,1-7) si annida un cumulo di questioni storico-critiche e teologiche. Solo un paio di esempi. Innanzitutto, il rompicapo cronologico del censimento di Quirinio, governatore di Siria: l’unico documentato è del 6 dopo Cristo, anche se è vero che l’evangelista parla di un «primo censimento». Secondo una prassi, non esclusiva, le operazioni censuali imperiali potevano essere non residenziali ma «etniche», cioè nella sede d’origine della tribù o dei clan familiari. È per questo che la coppia si sposta da Nazaret a Betlemme, luogo di ascendenza del clan di Giuseppe. L’altro dato è quello del parto di Maria all’interno di uno spazio strano: «Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7).

         L’immaginario comune della grotta del presepio e del rifiuto dell’accoglienza in albergo è posticcio: in realtà, Maria non partorisce in una stalla ma in una stanza secondaria che nelle case dei villaggi serviva come dispensa e rifugio invernale, in compagnia degli animali, stanza ceduta alla coppia forse da un conoscente o parente di Betlemme che, invece, occupava il vano principale. Anche la compagnia del bue e dell’asino è apocrifa, creata da un’allegoria popolare ignota al testo evangelico e basata su un passo del profeta Isaia, in cui Dio lamentava che «il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende» (1,3). Tuttavia, c’è quella pennellata di tenerezza della Madre che, nella povertà, si premura di avvolgere il suo piccolo in fasce e di offrirgli una culla così semplice, nella paglia e nel fieno della mangiatoia.

         Fermiamoci qui, anche se «il Bambino e sua Madre» è un modulo narrativo che costellerà tutta la narrazione del drammatico inizio della vita del neonato secondo il Vangelo di Matteo, costretto subito ad essere un profugo, mentre s’allarga la macchia di sangue della strage dei piccoli betlemiti ordinata da Erode. La letteratura non solo spirituale ha cercato di supplire allo scarno dettato evangelico e di ricostruire le emozioni umane e interiori di questa donna destinataria di una maternità così eccezionale. Essa, infatti, ha generato un figlio che ha segnato in un «prima» e un «dopo» lui la storia non solo occidentale, per i credenti e non. Ed è proprio a un ateo dichiarato come Jean-Paul Sartre che è toccato di ricomporre con finezza anche teologica quei sentimenti inespressi, quasi elaborando la definizione dogmatica Theotókos, «Madre di Dio», del Concilio di Efeso (431).

         Lo ha fatto nel testo teatrale Bariona o il figlio del tuono, scritto mentre era detenuto nello stalag XII D nazista di Treviri e destinato ad essere rappresentato per i suoi compagni di prigionia nel Natale del 1940. Ecco qualche riga di quell’opera così sorprendente e intensa: «Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio... Ella sente insieme che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che egli è Dio. Ella lo guarda e pensa: ‘Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia!’ Nessuna donna ha avuto in questo modo il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolissimo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio tutto caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e vive».

GIANFRANCO RAVASI

Pubblicato col titolo: La Madre della tenerezza, su IlSole24ORE, n. 350 (20/12/2020).