UNA TRIBÙ DI ASTEMI

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Nel libro ebraico più lungo dell’Antico Testamento (e anche il più divergente dall’antica versione greca della Bibbia detta «dei Settanta»), quello del profeta Geremia, fatto di 21819 parole, ci si imbatte in una pagina sorprendente, il capitolo 35, che credo pochi lettori conoscano o ricordino. Protagonista è un gruppo di ebrei isolazionisti e conservatori – se vogliamo usare le nostre categorie – denominati Recabiti, da Recab il loro antenato. Essi vivono nella terra di Israele come nomadi, dimorando in tende, e praticano un’osservanza rigida delle loro tradizioni tribali ancestrali, tra le quali spicca il divieto di bere vino, prassi che nella storia delle religioni sarà appannaggio di altri movimenti religiosi (ad esempio, l’islam).

         Ebbene, il profeta riceve uno sconcertante ordine divino: «Va’ dai Recabiti, conducili in una sala del tempio del Signore e offri loro vino da bere». Senza esitare Geremia li convoca e pone davanti a loro una fila di boccali colmi di vino e di coppe e impone loro: «Bevete il vino!». La loro replica è netta: «Noi non berremo vino, così come non costruiamo case, né coltiviamo campi o vigne, a differenza di quanto fanno i sedentari, ma continueremo ad abitare in tende». A questo punto è legittima la domanda: che significato riveste questa stravagante vicenda che vede un profeta implicato in un atto di corruzione o di provocazione e persino di prevaricazione nei confronti del «diverso»? Nel II secolo a.C. la stessa pretesa di violare una norma sacrale alimentare – quella dell’astinenza dalla carne suina – da parte del potere aggressivo siro-ellenistico scatenerà la rivoluzione giudaica dei Maccabei.

         Una studiosa, Cecilia Caiazza, ha scelto proprio questa pagina biblica poco esplorata anche dagli esegeti, l’ha sottoposta a una minuziosa lettura secondo i canoni della analisi narrativa e l’ha riproposta nel suo valore originario. Siamo, infatti, in presenza di una delle numerose azioni simboliche eseguite dai profeti (in questo brillerà Ezechiele) che trasformano le parole in atti, così da farle diventare messaggi incisivi. Curiosamente in ebraico il vocabolo dabar è polisemico coinvolgendo i due significati di «parola» e «atto, evento», ai nostri occhi in discrasia tra loro («tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare», recita un proverbio comune).

         Qual è, allora, la lezione di quella sorta di parabola in azione? Il profeta vuole contrapporre due atteggiamenti antitetici: da un lato, i Recabiti e la loro marmorea fedeltà alla tradizione dei padri; dall’altro, il popolo di Giuda che è, invece, renitente a seguire le norme morali e sociali siglate nell’alleanza con Dio al Sinai. Come scrive la studiosa, «si è dinanzi a un contrasto evidente tra due progetti di vita: da un lato, il Signore chiede al popolo ebraico di seguire i suoi comandi, mentre il popolo ritiene di potersi regolare secondo i propri piani; dall’altro, i Recabiti, obbedienti al loro antenato, restano fedeli ai suoi dettami». E per illustrare la struttura ideale di questa pagina geremiana, ricorre a un’immagine musicale, quella della politonalità che annoda e sovrappone in simultanea due o più tonalità differenti (ad esempio, come accade spesso nelle composizioni di Bartók).

         Dato che abbiamo evocato l’infedeltà di Giuda ai comandi divini rispetto all’obbedienza recabita a una regola umana, accostiamo al saggio citato lo studio che David L. Baker – un docente inglese che, oltre a calcare le cattedre tradizionali di Cambridge o Ware, ha insegnato per vent’anni anche in Indonesia – ha dedicato al Decalogo. Al contrario del capitolo geremiano, le due pagine bibliche che lo custodiscono (Esodo 20 e Deuteronomio 5) sono state oggetto di un flusso incessante di analisi esegetiche, teologiche, etico-sociali e artistiche, tant’è vero che nel testo che ora segnaliamo la bibliografia occupa una quarantina di pagine (eppure le assenze che abbiamo notate sono molteplici).

         Che il Decalogo sia simile a una stella polare morale nel cielo della cultura occidentale è dimostrato, ad esempio, dai mirabili dieci film che il regista polacco Krzysztof Kieslowski ha proposto nel 1988. Ora, prima di aprire il sipario e far scorrere i vari precetti, Baker affronta una serie di questioni preliminari che riflettono altrettante domande: perché si hanno due redazioni non del tutto coincidenti? Possiamo ricostruire una forma originaria? Che rapporto c’è con la figura di Mosè? Che valore assegnare alla loro pretesa di essere «parola di Dio»? È legittimo considerarli come una sorta di «costituzione» dell’ebraismo biblico? E per stare al parallelo antitetico precedente tra Recabiti e Israele, il Decalogo formalizza la risposta umana richiesta da Dio nella stipula dell’alleanza al Sinai?

         Alzato il sipario, ecco sfilare i comandamenti, intruppati in due schiere. La prima porta un’insegna «teologica»: amare Dio. E comprende l’affermazione dell’unicità divina, il culto, il riposo sabbatico e la famiglia voluta dal Signore. Il secondo gruppo reca come vessillo l’amore per il prossimo e si articola nei temi della vita, del matrimonio, della proprietà, della verità, della «bramosia» (che, come è noto, crea qualche imbarazzo a una lettura superficiale, eppure è, sì, l’ultimo ma «non meno importante comandamento»). Il testo di Baker rivela in filigrana un’adeguata competenza esegetica, ma la sua finalità è l’ascolto da parte di un pubblico anche «generalista».

         Proprio per questo, all’analisi di ogni comandamento viene associata una «riflessione» dai risvolti concreti e fin contingenti. Tanto per citare a caso, il commento al precetto che condanna la falsa testimonianza ed esalta la verità si apre con la menzione del volo 730 della Malaysia Airlines disperso nel 2014 e mai ritrovato, oppure si cita un proverbio russo secondo il quale «è meglio lo schiaffo della verità che il bacio di una bugia», e si giunge persino al Watergate, alle accuse nei casi Clinton e Archer e persino all’inganno pubblico di Tony Blair sulla guerra in Irak, per non parlare del ricorso agli eufemismi ipocriti e alle fake news. Siamo, quindi, davanti a una lettura motivata criticamente, ma anche a una vivace attualizzazione nella contemporaneità, dimostrando la perenne «giovinezza» e vitalità di questo grande codice etico che forse ogni giorno violiamo ma che rimane infisso – come dicevamo – nel cielo della morale universale, non solo religiosa.

         Un post scriptum particolare. Abbiamo sopra parlato dei Recabiti, un gruppo di persone «diverse» che il profeta Geremia provoca. Ai nostri giorni questo tema del confronto con l’«altro» è diventato incandescente ed è paradossale che alcuni politici lo inalberino come motivo identitario cristiano, quando dovrebbe essere scontato che l’accoglienza – sia pure con tutte le declinazioni socio-politiche concrete – sia tra i precetti capitali evangelici. Tuttavia nella Bibbia non mancano passi esclusivistici e persino aggressivi, specchio di una società chiusa. A questo proposito, in appendice, e purtroppo solo con una mera citazione, suggeriamo le poche (ma intense ed efficaci) pagine che uno studioso da sempre impegnato nel dialogo tra fede e cultura e tra ebraismo e cristianesimo, Piero Stefani, offre per interpretare correttamente Scritture sacre apparentemente al loro interno conflittuali proprio sul «diverso», sul «lontano». A questo proposito, finiamo con una storiella giudaica significativa. Mendel chiede ad Avrom: «Dove vai?». «Vado lontano». E l’altro: «Lontano da dove?».

GIANFRANCO RAVASI

Cecilia Caiazza, Una fedeltà possibile, Dehoniane, Bologna, pagg. 184, € 20,00.

David L. Baker, Il Decalogo, Queriniana, Brescia, pagg. 259, € 25,00.

Piero Stefani, Società chiusa e società aperta nella Bibbia, Morcelliana, Brescia, pagg. 55, € 8,00.

Pubblicato col titolo: I codici etici della Bibbia, su IlSole24ORE, n. 245 (06/09/2020).