RUT, GIOBBE, QOHELET

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È stato detto che questo delizioso racconto fatto di sole 1294 parole ebraiche sia una sorta di «Cenerentola biblica»: la protagonista Rut, infatti, dalla povertà estrema di spigolatrice ascende alle nozze col signorotto della cittadina di Betlemme, il ricco proprietario terriero Bo‘az. Lo sviluppo è scattante ed è intessuto di suspense, curiosità e sorprese, e la vivacità dei colori narrativi esige che il commentatore abbia una finezza non solo teologica ma anche letteraria.

         È ciò che avviene nel commento al libro di Rut a cura di un docente belga di esegesi, il gesuita Jean-Pierre Sonnet, che è anche un raffinato poeta e scrittore. Sarà, perciò, un godimento lasciarsi accompagnare da lui nella scoperta degli angoli remoti, persino notturni, della vicenda, negli ammiccamenti lessicali, negli squarci spirituali. Suggestiva, infatti, non è solo la sequenza delle scene ma lo è pure la visione teologica che mette in azione un Dio che si aggira nascosto tra le pieghe degli atti, capace di ribaltare le sorti senza però nessun clamore epifanico.

         Interessante è anche la capacità dell’autore ebreo di trasporre in racconto alcune leggi tipiche dell’ordinamento civile dell’antico Israele, come il levirato, una norma secondo la quale il fratello di un defunto era obbligato a sposarne la vedova se la coppia era rimasta senza figli. Importante è anche la prassi della spigolatura nei campi che era una sorta di salario minimo di sopravvivenza per i poveri. E nelle righe finali ecco una genealogia che ha come ultimo anello nientemeno che il re Davide, la cui bisnonna è proprio Rut.

         Il nostro obiettivo passa, poi, dall’atmosfera paesana e contadina di Betlemme, con una storia familiare tormentata ma alla fine placata in un sereno happy end, a una vera e propria cattedrale poetica. Essa si leva imponente – pur con le lesioni che il tempo le ha inflitto – con le sue 8343 parole ebraiche, affidate a un lessico mutevole, teso fino all’estremo delle sue potenzialità, come lo è il suo progetto tematico, impressionante ma difficile da stanare. Stiamo parlando del libro di Giobbe, un capolavoro assoluto di tenebra, di urla, di silenzi, di parole estreme e supreme. Con coraggio un altro studioso – tra i tanti commentatori che si sono arrischiati a inoltrarsi sul crinale tagliente tra fede e negazione disegnato dal protagonista, lo «sceicco» straniero ’Jiôb di Uz – si è confrontato con questo testo dalla complessa stratificazione letteraria e teologica.

         È Benedetto Piacentini, che ha alle spalle una vasta esperienza di studi ma anche di vita nella terra della Bibbia. Il suo approccio a quest’opera dalla redazione piuttosto travagliata è minuzioso nell’analisi, minuto nei caratteri tipografici e minore nella tonalità che esclude una netta definizione del messaggio, affidandone la scoperta all’accurato spoglio del testo stesso, condotto versetto per versetto ma anche con uno sguardo sintetico su ogni sua tappa. Alla fine irrompe il Dio contestato e chiamato in causa incessantemente dal grande sofferente. Ed è qui che si raggruma, nel gomitolo delle domande (e non delle risposte) divine, il filo del significato ultimo del libro che riesce a far prevalere la teologia, cioè il discorso su Dio, rispetto all’antropologia, ossia lo scandalo della sofferenza, spazzando via i teoremi «razionali» degli amici teologi di Giobbe.

         Testo di crisi, quindi, nel senso genuino del termine, di discriminante tra «il dire cose rette» su Dio oppure solo stereotipi. Libro di crisi, ma nel senso comune del vocabolo è, invece, un altro scritto biblico capitale, rubricato sotto lo pseudonimo di Qohelet/Ecclesiaste, «presidente di assemblea». Siamo, infatti, di fronte a un’aspra riflessione di 2987 parole ebraiche che pone sotto il vaglio critico la sapienza tradizionale, un po’ come faceva Giobbe, ma senza raggiungere un esito finale segnato dalla voce forte di Dio. Su quest’opera si sono accaniti da sempre gli esegeti, oscillando tra gli estremi interpretativi del pessimismo o del distacco pacato e persino sereno.

         Partendo dalla messe ricca dei commenti, un biblista di alta qualità come Ludwig Monti, tenta un confronto provocatorio appaiando Qohelet a Gesù, due voci a prima vista dissonanti, anche se i Padri della Chiesa non esitavano ad affermare che «il nostro Ecclesiaste è Cristo». Ma come è possibile sostenere una simile tesi davanti a parole del sapiente anticotestamentario del taglio «Tutto è vanità, un soffio, un inseguire vento, tutto è sempre uguale sotto il sole, e infine si va ai morti…»? Oppure lasciandoci colpire dalle sue domande inevase: Chi consola il pianto degli oppressi? Quale Dio? È ancora possibile parlare quando tutte le parole sono logore? Quale sapienza è possibile? Per chi mi affatico? Che senso ha la storia e la vita?

         La sorprendente originalità di Monti è quella di aver rivolto questi interrogativi a Gesù, scovando nei Vangeli le sue reazioni, le risposte ma anche il rilancio in nuove domande alternative. Lasciamo ai lettori di partecipare a questo duetto veramente coinvolgente: sarà la paradossale scoperta di due maestri, diversi eppur necessari, «autorevoli compagni di strada» nel groviglio dell’essere e dell’esistere.

GIANFRANCO RAVASI

Rut, a cura di Jean-Pierre Sonnet, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), pagg. 146, € 25,00.

Benedetto Piacentini, Il libro di Giobbe, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia, pagg. 361, € 19,50.

Ludwig Monti, Qohelet e Gesù, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), pagg. 253, € 19,00.