TRADURRE

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«L’originale è infedele alla traduzione»: è facile citare questa battuta paradossale di Borges quando si parla di un atto ermeneutico molto delicato com’è quello del trasferire un testo dalla lingua originale a un’altra, spesso varcando gli abissi delle distanze dei sistemi socio-culturali e letterari. Anche Stefano Arduini, docente di linguistica e traduttore in proprio, non ha resistito a porre questa frase in esergo al suo saggio dedicato alle antiche versioni bibliche, puntando soprattutto a quel monumento storico che è stata la Septuaginta. Con questo termine latino si rimanda alla leggendaria tradizione sulla traduzione greca dell’Antico Testamento ebraico, una vicenda narrata nella cosiddetta Lettera di Aristea (II sec. a.C.), un documento molto fecondo per gli epigoni che ha generato.

         Ad essa è riservato un capitolo intero che ne identifica coordinate e caratteristiche per poi procedere in una nuova tappa che ne presenta il contenuto e la rispettiva leggenda dei 70/72 «santi traduttori». E qui entrano in scena diversi attori successivi come Aristobulo, Filone di Alessandria, Giuseppe Flavio e il più distante Epifanio. Sarà per molti la scoperta di un’avventura che ha nel cuore una versione sacra che ha permesso al rude e remoto testo ebraico biblico di approdare sulle sponde della raffinata Diaspora mediterranea e di altre regioni europee, lambendo la liturgia cristiana orientale, penetrando nei secoli successivi nelle accademie esegetiche moderne.

         Si è persino giunti al punto di aprire un dibattito teologico sulla sua eventuale «ispirazione» sacra, analoga a quella dei testi originali e si sono creati appositi centri di studio per le edizioni critiche. D’altronde in era cristiana (II sec.) si erano gemmate altre traduzioni contrassegnate dai nomi di Aquila, Teodozione e Simmaco. La livrea più alta della Septuaginta era quella di essere stata adottata dagli autori del Nuovo Testamento e dalla Chiesa delle origini. Ma la sua missione fu, per certi versi, anche «kerygmatica» perché offrì il messaggio biblico all’orizzonte greco-romano.

         Arduini prosegue nella sua descrizione della Parola tradotta con l’ingresso del latino. Sale, così, alla ribalta Girolamo che non esiterà in alcuni casi a inserire nella sua Vulgata traduzioni basate proprio sull’antica versione greca travalicando l’ebraico. La traduzione rimane, in ogni caso, un atto di «ospitalità», ossia di reciproca accoglienza, come diceva Ricoeur nel suo bel saggio Sur la traduction (Bayard 2004). Non per nulla lo stesso Arduini, memore del suo discepolato presso il grande maestro in questa arte, l’americano Eugene Nida, ritaglia nel suo libro uno spazio «teorico» dedicato ad approfondire questo atto («Parole per tradurre») introducendo una raggiera di vocaboli connessi come riscrivere, trasformare, comunicare, interpretare, esprimere, rendere, vertere, oralità. Non possiamo, però, non segnalare di nuovo un testo che a suo tempo abbiamo recensito perché è una summa delle questioni sottese al tradurre la Bibbia: è l’opera La traduzione e le traduzioni di Emanuela Buccioni (Ed. Domenicana Italiana, Napoli 2016).

         Sulla scia dell’onda generata dalle traduzioni bibliche in terre aliene, evochiamo un altro fenomeno, ultimamente registrato con grande interesse e rubricato sotto lo stereotipo «grande codice» o sotto il tecnicismo Wirkungsgeschichte. È la «storia degli effetti» che la Bibbia ha generato attraverso la recezione dei suoi testi, narrazioni, temi, personaggi, simboli nella sequenza dei secoli fino ai nostri giorni. Ormai un’intera bibliografia specifica si è esercitata su queste comparazioni che vedono non solo attualizzazioni, trasformazioni, esaltazioni, ma anche degenerazioni conflittuali. Segnaliamo, allora, uno specimen parziale e antologico offerto da un’ormai antica e collaudata rivista, Humanitas.

         In un numero monografico mette in scena una curiosa selezione che oscilla da Leopardi a Primo Levi, e che non esita a penetrare nella contemporaneità più recente: emblematico è lo spazio riservato al Libro di tutti i libri di Calasso che anche noi abbiamo qui proposto alla sua uscita quasi alle soglie della morte del suo autore. Non manca, poi, una nota riservata al Poema della Croce (2004) di Alda Merini, arditamente collegato alla visione teologica di Pavel Florenskij. Come sempre affascinante è la parabola di Giona col suo mitico «grosso pesce» (così l’ebraico), divenuto un «cetaceo» (kêtos) nella versione dei Septuaginta e poi – secondo la popolare identificazione – trasformato in una «balena».

         Al riguardo, è molto interessante la sequenza simbolica ittico-letteraria in uno dei saggi. Si parte dal Leviatano di Hobbes (1651), segno dello Stato, corpo possente con le membra dei cittadini; scontato è il passaggio al supremo Moby Dick di Melville (1851), vessillo della «lotta tra il bene e il male, la paura dell’ignoto, la possibilità della speranza, il desiderio di riscatto, il contrasto tra giustizia e ingiustizia». E non può mancare Collodi con le sue Avventure di Pinocchio (1881), così come Hemingway col Vecchio e il mare (1952) e il gigantesco pesce Marlin, per scendere poi, più in basso, coi Pesci rossi di Cecchi (1920), il Colombre di Buzzati (1961) e il magmatico Horcynus Orca di D’Arrigo (1975). Una sorta di simbologia ittica sacro-letteraria.

GIANFRANCO RAVASI

Stefano Arduini, Traduzioni in cerca di un originale. La Bibbia e i suoi traduttori, Jaca Book, pagg. 166, € 22,00.

Autori Vari, Bibbia e letteratura, in «Humanitas» 2021, nn. 4-5, € 25,00.