REMBRANDT A EMMAUS

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«A chi di noi la casa di Emmaus non è familiare?... Seguivamo prima una strada, e qualcuno ci veniva a lato. Eravamo soli e non soli. Era sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità di una sala ove la fiamma del caminetto non rischiara che il suolo e fa tremolare delle ombre...». Sembra quasi che, quando François Mauriac nel 1936 nella sua Vita di Gesù “dipingeva” sulla pagina la celebre scena di Emmaus descritta dal Vangelo di Luca (24,13-35), avesse davanti agli occhi la piccola tavola ad olio (39x42 cm) di Rembrandt conservata nel Museo Jacquemart-André di Parigi. Un’analoga esperienza era stata esplicitata in un breve ma emozionante saggio dello studioso franco-polacco ebreo Max Milner (1923-2008) convertitosi poi al cattolicesimo: «Questo libro è nato da una scoperta e da una sorpresa».

Lo “choc” – che questo autore eclettico (si interessò di letteratura romantica, di arte, di filosofia, di psicanalisi, di spiritualità) confessa nella sua analisi, ora tradotta in italiano – penso possa ripetersi in tutti coloro che sosteranno di fronte al dipinto giovanile dell’artista olandese (siamo nel 1628 e aveva solo 22 anni). Il racconto fremente dell’evangelista, dopo il cammino di sessanta stadi (11 km) dei tre attori da Gerusalemme al villaggio di Emmaus, viene ora fissato su un interno: una tavola, un pane e i tre protagonisti, cioè l’ignoto compagno di viaggio e i due discepoli, dei quali uno solo è citato per nome, Cleopa (forse Cleopatro). In quella stanza l’ospite misterioso, le cui parole già facevano battere il cuore ai due viandanti durante il percorso, «prende il pane, pronuncia la benedizione, lo spezza e lo distribuisce a loro».

Continua Luca: «Allora i loro occhi si aprirono e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista». È il Cristo risorto che gli occhi della carne non avevano riconosciuto e che ora lo sguardo dell’anima e della fede rivela. Ebbene, Rembrandt, in modo straordinario, riesce a cogliere con un impressionante gioco di luci e ombre l’istante ineffabile e supremo del riconoscimento. In quel dipinto si concentrano l’abbagliante stupore di uno dei due (Cleopa?), l’atmosfera notturna squarciata da un lampo di luce esterno, l’invisibile linea di demarcazione del transito da una malinconica incredulità («speravamo che fosse lui a liberare Israele») a un’accecante teofania, ma soprattutto brilla la trasfigurazione di Cristo che dalla corporeità passa alla trascendenza, divenendo un presente-assente.

Rembrandt riesce proprio a cogliere quel trapasso indicibile attraverso il linguaggio dell’ombra che paradossalmente trascolora in luce, col profilo d’un corpo che è già esaltazione d’una persona divina. Nessuna catechesi riuscirebbe a spiegare con una sola parola la continuità personale storica e la diversità trascendente della risurrezione di Cristo, così come sa fare il pittore che combina in un solo sguardo l’umanità e la divinità, la carnalità e la spiritualità, la finitudine umana e la potenza celeste, l’assenza e la presenza appunto. Le finissime analisi di Milner inseguono ogni dettaglio del quadro, dall’incontro alla scena finale e alla sua atmosfera, dal misconoscere al riconoscere dei due discepoli, giungendo fino alla metamorfosi ultima.

È una vera e propria esegesi in cui s’incrociano la lettura evangelica e lo scavo critico. Un’esegesi teologico-pittorica che s’allarga ad altre riprese dell’evento di Emmaus da parte dello stesso Rembrandt (la tavola del Louvre di vent’anni dopo, la tela contemporanea del Museo Reale di Copenaghen e l’ultimo olio del Louvre del 1660, per non parlare delle acqueforti e dei disegni), ma anche di altri pittori: come non evocare i due Caravaggio della National Gallery di Londra e di Brera o il Veronese del Louvre, il Rubens del Prado e il Tiziano del Louvre? La lettura di queste pagine critiche diventa un’esperienza interiore e intellettuale che non lascia indenni se si accompagna alla contemplazione delle necessarie “pagine” pittoriche degli artisti. Un’esperienza a cui ci guida anche l’intensa postfazione di Carlo Ossola, la cui testimonianza è necessaria per raccogliere in unità i fili di così molteplici e vertiginose vicende umane e spirituali nelle quali il visibile e l’invisibile s’annodano tra loro.

Il testo di Milner ci fa comprendere quanto si è perso ai nostri giorni archiviando quell’immenso lessico di narrazioni, eventi, personaggi, simboli, temi che costituiscono il “grande codice” della Bibbia. Tuttavia anche in questa assenza si cela talora una presenza silenziosa, forse un’eco, come accade alla conchiglia che conserva la voce del mare anche quando è ridotta a un soprammobile. È ciò che ha voluto esplicitare un sacerdote milanese di fine sensibilità culturale, Paolo Alliata, classe 1971, che in proprio ha tentato anche la via del teatro per ragazzi, un pubblico per certi versi piuttosto arduo. Ora, però, si è incamminato lungo i sentieri tracciati da autori e artisti vicini e soprattutto lontani dalla fede cristiana e ne ha composto una sorta di mosaico, il cui ordito è scandito da temi più evocativi che descrittivi. È ciò che postula la grande arte, a partire proprio dal dipinto di Rembrandt o, se si vuole, dalla musica o dalla poesia autentica.

Si passa, così, dal dono giungendo fino alla vita, si va dallo sguardo per arrivare a cogliere la persona: sono temi esistenziali e spirituali riletti con la voce di molteplici figure della nostra cultura. Siamo lontani, nelle pagine di questo libro dalla frigidità di una catechesi o dall’enfasi di un canto religioso. Don Paolo, infatti, insegue il respiro di Dio che alita nelle parole scritte o dipinte di tanti (spesso inattesi) testimoni. Egli lo fa ammiccando anche solo a un simbolo o a un segno, come ad esempio la caverna del film dei preistorici Croods per il sepolcro di Lazzaro o al pranzo di Babette per l’ultima cena di Gesù, oppure accostando Rilke alla rete gettata in mare della parabola di Cristo o il capitano Mendoza del film Mission alla croce e alla gloria del Risorto.

O, ancora, si sceglie la cipolla di una metafora dei Fratelli Karamazov, ma si accende pure il fuoco di van Gogh, oppure emerge il fremito di una lettera di Mark Twain a Walt Whitman e così via, facendo occhieggiare non solo i codificati Wilde, Hugo, Calvino, Blixen, Levi, Fallada, Buzzati e persino Darwin, ma anche il Ridley Scott del film The Martian, Giono, Rodari, Tolkien e così via. Ma sempre e su tutto aleggia quel respiro divino che, come il vento, ignora frontiere, che non si scandalizza della domanda impertinente, che non teme l’ergersi di un muro, che non esita a scavalcare il sussiego dell’ipocrita, che pervade ogni creatura nell’intimo della coscienza, che con noi arranca lungo le piste dei deserti della crisi, del dubbio, dell’attesa e si accompagna persino ai nostri sussurri, sempre presente anche se spesso in incognito.

GIANFRANCO RAVASI

Max Milner, Rembrandt a Emmaus, postfazione di Carlo Ossola, Vita e Pensiero, Milano, pagg. 127, € 14,00.

Don Paolo Alliata, Dove Dio respira di nascosto, Ponte delle Grazie, Milano, pagg. 156, € 16,00.

Pubblicato col titolo: L'istante di luce a Emmaus su IlSole24Ore n. 110 del 24/04/2019