Il riaffiorare dell’irrazionale nella cultura occidentale: una sfida per la nuova evangelizzazione

S.Ecc. Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto

a) Dall’ebbrezza della razionalità alla sua crisi

       Il passaggio dal “secolo lungo”, l’Ottocento liberale borghese, iniziato con la rivoluzione francese e conclusosi con la prima guerra mondiale, al cosiddetto “secolo breve” (Cf. E. Hobsbawn, Il secolo breve, Milano 1995), segnato dall’affermarsi dei frutti estremi dell’ottimismo totalitario dei modelli ideologici e dalla loro crisi, può essere come una sorta di traumatica deriva che va dall’ebbrezza moderna della razionalità alla sua crisi. Così lo rappresentano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’illuminismo: “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata risplende all’insegna di trionfale sventura” (M- Horkheimer, - Th. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino 1966, 11). “La terra interamente illuminata” è metafora della modernità, plasmata dal sogno di una ragione adulta ed emancipata, capace di spiegare tutto, illuminando il mondo e la vita con la potenza del concetto. L’”emancipazione”, che Karl Marx aveva inteso precisamente come “la riconduzione del mondo e di tutti i rapporti umani all’uomo stesso” (Zur judenfrage, in K. Marx, Die Frühschriften, hrsg. Von s. Landshut, Stuttgart 1971, 199), vuol rendere l’uomo finalmente padrone del proprio destino, custode e protagonista del domani nella forza del proprio presente. Questo sogno ispira i grandi processi emancipatori dell’epoca moderna - da quelli dei popoli del cosiddetto terzo mondo, a quelli delle classi sfruttate e delle razze oppresse, a quelli della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali -, fino al punto da riconoscere nella “emancipazione” la buona novella di un mondo finalmente liberato dalle dipendenze, che farebbero dell’uomo una “coscienza infelice”, non padrona di sé. Il progetto di emancipare il mondo e la vita a partire dall’idea spinge l’uomo “moderno” a volere una realtà totalmente illuminata dal concetto, in cui si esprima compiutamente la potenza della ragione. Il tempo della modernità è un tempo di luce, in cui la ragione finalmente adulta si riconosce chiamata a spiegare ogni cosa. E questa convinzione che produce l’ebbrezza della razionalità moderna, una sorta di pretesa di giustificare e abbracciare col pensiero la totalità del reale.

       L’altro nome di una tale ebbrezza della razionalità è quello di “ideologia”. La modernità, tempo del sogno emancipatorio, è anche e inseparabilmente il tempo delle visioni totali del mondo, caratteristiche dell’uomo emancipato. L’ideologia presume di poter spiegare e dare senso a ogni cosa. Ed è così che essa diventa necessariamente violenta. La realtà deve essere piegata alla potenza del concetto. Friedrich Nietzsche denuncerà questo germe violento chiamandolo “volontà di potenza”: è questa ad ispirare il sogno esaltante dell’emancipazione totale; è la volontà dell’uomo di dominare la vita e la storia, ma alla fine anche di dominare gli altri per piegarli al protagonismo della propria soggettività. Perciò il sogno di totalità diventa inesorabilmente totalitario: il tutto compreso dalla ragione si converte in totalitarismo. Non a caso, né per un semplice incidente di percorso, tutte le avventure dell’ideologia moderna, di destra come di sinistra, dall’ideologia borghese all’ideologia rivoluzionaria, sfociano in forme totalitarie e violente. Ed è precisamente l’esperienza storica dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi della ragione moderna. Il pensiero totalmente illuminato si risolve in causa di trionfale sventura: lungi dal produrre emancipazione, genera dolore, alienazione e morte. L’ebbrezza della razionalità cede il posto alla sua inesorabile crisi in una parabola drammatica, così descritta da Dietrich Bonhoeffer in un passo della sua Etica incompiuta: “Il padrone della macchina ne diventa lo schiavo e la macchina diventa nemica dell’uomo. La creatura si rivolta contro chi l’ha creata: singolare replica del peccato di Adamo! L’emancipazione delle masse sfocia nel terrore della ghigliottina. Il nazionalismo porta inevitabilmente alla guerra. L’ideale assoluto della liberazione conduce l’uomo all’autodistruzione. Alla fine della via per la quale ci si è incamminati con la rivoluzione francese si trova il nichilismo” (D. Bonhoeffer, Etica, a cura di E. Bethge, Milano 19692, 86s).

 

b) Il tempo della crisi e il riaffiorare dell’irrazionale

       Se la ragione illuminata pretende di spiegare tutto e tutto, illuminando, risolvere, la post-modernità si offre anzitutto come tempo che sta al di là della totalità luminosa dell’ideologia, tempo post-ideologico o del lungo addio dalle certezze assolute. In questa reazione alla violenza totalizzante dell’idea, nel declino rispetto alle presunzioni di fondamento e di motivazione ultima, si profila un riaffiorare dell’irrazionale. Se per la ragione adulta tutto aveva senso, per il pensiero debole della condizione post-moderna nulla sembra avere più senso: dove la razionalità intendeva garantire ogni passo, si fa strada il senso del naufragio e della caduta. La crisi delle pretese della razionalità moderna diventa la caratteristica peculiare dell’inquietudine postmoderna. In questo tempo di penuria di orizzonti di senso, la malattia mortale diventa l’indifferenza, la sfiducia nella capacità della ragione a spiegare il mondo e la vita, la rinuncia a porsi la domanda sul senso, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Si verifica la terribile verità della parola dei Chassidim, i pii ebrei della diaspora: “L’esilio di Israele è cominciato il giorno in cui Israele non ha più sofferto del fatto di essere in esilio”. L’esilio non è la lontananza dalla patria: l’esilio vero è l’assenza di nostalgia della patria. L’esilio è il non soffrire più della separazione dal senso, è l’estraniarsi dalla possibilità di fondazione del comportamento in rapporto a un ultimo orizzonte e a un’ultima patria.

       Si profila così l’estremo volto della crisi epocale della razionalità trionfante: il volto della décadence.Così la descrive Bonhoeffer: “Non essendovi nulla di durevole, vien meno il fondamento della vita storica, cioè la fiducia, in tutte le sue forme. E poiché non si ha fiducia nella verità, la si sostituisce con i sofismi della propaganda. Mancando la fiducia nella giustizia, si dichiara giusto ciò che conviene... Tale è la situazione del nostro tempo, che è un tempo di vera e propria decadenza” (D. Bonhoeffer, op. cit., p. 91). La decadenza non è l’abbandono dei valori, la rinuncia a vivere qualcosa per cui comunque si pensa che valga la pena di vivere. La decadenza è un processo ben più sottile: essa priva l’uomo della passione per la verità, gli toglie il gusto di combattere per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. La decadenza vorrebbe persuadere ad un ottimismo ingenuo, universale, che non ha bisogno di tenere ferma la negatività dell’avversario, perché tende solo a piegarlo al proprio calcolo e al proprio interesse, senza curarsi della verità. Il decadente è pronto ad accordarsi su tutto, con tutti, pur di affermare se stesso: la décadence svuota di forza il valore, perché non ha interesse a misurarsi con esso; in essa è l’irrazionale dell’enfatizzazione dell’io a sostituirsi alla visione d’insieme di una ragione totalizzante, ideologica.

       Ciò di cui si è più malati oggi è allora la mancanza di passione per la verità: è questo il volto tragico della “mancanza di patria” del tempo presente (Martin Heidegger). Nel clima della decadenza tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. E il trionfo della maschera a scapito della verità: è il nichilismo della rinuncia ad amare, dove gli uomini sfuggono al dolore irr6nito dell’evidenza del nulla, fabbricandosi maschere di perbenismo, dietro cui celare la tragicità del vuoto. Nel clima della decadenza, perfino l’amore diventa maschera e i valori si riducono a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato e di passioni vere: l’uomo si risolve in una “passione inutile” (J.-P. Sartre, L’Essere e il Nulla (1943), tr. It. G. Del Bo, Milano 19703, 738). Fra le culture delle società segnate dalla parabola della modernità questo processo si esprime in una condizione che può descriversi al tempo stesso come esperienza della contaminazione, della fruizione e della frustrazione, tre volti del medesimo trionfo dell’irrazionale su ciò che la ragione presentava come logico e progettuale.

       Il postmoderno è tempo della contaminazione, perché se per i figli dell’ideologia tutto aveva valore, e poteva perciò essere oggetto di passioni e di amori, nel tempo della crisi della ragione ideologica tutto appare contaminato, sporco, infondato. “L’essere non è, ma accade”, dirà il “pensiero debole”. Non c’è più un fondamento su cui si regga la consistenza d’esistere: tutto è “insostenibile leggerezza dell’essere” (Milan Kundera), irrefrenabile caduta nel nulla. Perciò il postmoderno è anche tempo della fruizione, della sete di bruciare l’istante, di assolutizzare l’adesso, consumando l’intensità dell’attimo, perché dove nulla è ancorato, dove nulla ha fondamento o senso, tanto vale bruciare la vita nella consumazione immediata. Ed è questo aggrapparsi all’evanescenza della fruizione fugace che condanna inesorabilmente il postmoderno ad essere il tempo della frustrazione, dell’abbandono nichilista e disperato, perché comunque la fruizione non riesce a dare durevolmente senso alla vita. E questa la crisi di fronte a cui ci troviamo, l’orizzonte del nostro attuale agire e pensare da cristiani: la “cultura forte”, espressione dell’ideologia, si è frantumata nei tanti rivoli delle “culture deboli”, in quella “folla delle solitudini”, in cui è soprattutto rilevante la mancanza di orizzonti comuni, quella penuria di speranze “in grande”, che piega ciascuno nel corto orizzonte del suo “particulare”. Dove muoiono le speranze vere, trionfa il calcolo di bassa lega: alle ragioni del vivere e del vivere insieme, si sostituisce la rivendicazione dell’immediatamente utile e conveniente, la protesta fondata nell’interesse dall’ottica breve, spesso ottusa e velleitaria sulla lunga portata. La fine delle ideologie appare così veramente come la pallida avanguardia dell’avvento dell’idolo, che è il relativismo totale di chi non ha più alcuna fiducia nella forza della verità. Siamo malati di assenza, poveri di speranza e di grandi ragioni: dove manca la passione per la verità, tutto è possibile, e perfino l’esperienza della solidarietà può coniugarsi a calcoli volgari, declinandosi in progettazioni di piccolo cabotaggio...

 

e) Alla ricerca del senso perduto?

Sfide per un annuncio rinnovato della “buona novella”

       La critica all’universo ideologico mostra facilmente come questo salti sulla concretezza del singolo, sacrificandola alla tragica, anche se tranquillizzante legge dell’adeguamento alla norma universale, esibita dalla stessa ideologia (si pensi ai meccanismi di giustificazione della violenza sull’avversario dell’idea). Scriveva con impressionante perspicacia Rudolf Bultmann: “Ben si comprende perché le ideologie siano tanto care all’uomo: . ..gli rendono il solito gran servizio: lo mettono in grado di liberarsi di se stesso, lo dispensano dai problemi che gli pone la sua esistenza concreta, dalla preoccupazione e dalle responsabilità che vi sono connesse... per cui, proprio nel momento in cui la sua esistenza è scossa e si fa problematica, egli trova di che liberarsene e invece di prenderla sul serio, preferisce intenderla come un caso da ridurre alla comune generalità, da integrare in un contesto, da obiettivare per evadere dalla sua personale esistenza” (R. Bultmann, Che senso ha parlare di Dio? (1924), in Id., Credere e comprendere, Brescia 1977, 40). Il superamento del chiuso mondo dell’idea totalitaria e violenta non avviene allora che nella riscoperta dell’altro, nella percezione della concretissima interruzione che il prossimo rappresenta nei confronti di ogni volontà di potenza e di ogni meccanismo di autogiustificazione della ragione. Rispetto al rifugio nell’irrazionale come reazione alla violenza della razionalità ideologica, emerge una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), una sorta di ricerca del senso perduto. Non si tratta d”une recherche du temps perdu”, di un’operazione della nostalgia, ma di uno sforzo diffuso di ritrovare il senso al di là del naufragio, di riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di tutto ciò che è penultimo. La metafora del “naufragio con spettatore”, scelta da Hans Blumenberg per designare il moderno e i suoi esiti (H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, Bologna 1985), mostra al tempo stesso come tutti i protagonisti dell’attuale complessità siano figli del moderno, naufraghi e spettatori del naufragio al tempo stesso, e - proprio perciò - come in essi ci sia insieme con la deriva una possibile resistenza ad essa.

       È possibile segnalare alcune espressioni di questa ricerca del senso perduto: in primo luogo, la riscoperta dell’altro. Con Emmanuel Lévinas si può riconoscere che il volto d’altri, nella sua nudità e concretezza, nel semplice porsi del suo sguardo è la misura dell’infondatezza di tutte le pretese totalizzanti dell’io. 11 prossimo, col solo fatto d’esistere, è ragione del vivere e del vivere insieme, perché è sfida a uscire da sé, a vivere l’esodo senza ritorno dell’impegno per altri, dell’amore. Accanto alla “felicità di consumo” del decadente, che vuol solo raggiungere lo scopo e goderne in un vuoto sempre maggiore di senso e di durata, c’è la “felicità di produzione” di chi capisce che le ragioni del vivere sono in altri, che si ha un motivo per vivere quando si ha qualcuno da amare, che si è felici quando ci si impegna a rendere felici gli altri. Il volontariato, con tutta la complessità e perfino ambiguità delle sue forme, capaci di ospitare al tempo stesso la gratuità come la gratificazione, il nuovo interesse al prossimo più debole, la crescente coscienza delle esigenze della mondialità, possono profilarsi come altrettante espressioni di questa ricerca del senso perduto. Qui si presenta una nuova opportunità per l’annuncio del vangelo della carità, oltre i naufragi della razionalità assoluta e il rifugio nell’irrazionale.

       In secondo luogo, va segnalata una ritrovata “nostalgia del Totalmente Altro” (Max Horkheimer), una sorta di riscoperta dell’Ultimo: è ancora Lévinas che nel volto d’altri riconosce la traccia dell’Altro, e stabilisce così il primato dell’appello etico rispetto ad ogni astrazione metafisica e ad ogni rinuncia nichilista. Si risveglia un bisogno, che genericamente potremmo definire religioso: bisogno di fondazione e di senso, di ultimi orizzonti, di un’ultima patria che non sia quella seducente, manipolante e violenta dell’ideologia. Si riaccende la sete di una speranza, capace di fondare il rapporto etico come un rapporto d’amore. E come “una nuova scoperta di Dio nella sua trascendente realtà di Spirito infinito... il bisogno di adorarlo ‘in spirito e verità’ (Gv 4,24); la speranza di trovare in lui il segreto dell’amore e la forza di una ‘nuova creazione’ (Rm 8,22; Gai 6,15): sì, proprio Colui che dà la vita” (Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem, Lettera enciclica sullo Spirito Santo nella vita della Chiesa e del mondo, n. 2). A questo bisogno profondo corrisponde il Vangelo di Gesù. Osserva Benedetto XVI nella Enciclica Spe salvi: “La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una ‘prova’ delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro”. Proprio perciò, “la vera, grande speranza dell’uomo, quella che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio - il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora ‘sino alla fine” (Benedetto XVI, Spe salvi, nn. 7 e 27). “Ripartire da Dio” è sfida e urgenza per tutti. L’appello della buona novella alla conversione del cuore e alla resa della fede trova qui una singolare opportunità, al di là delle cadute irrazionalistiche della cultura “post-moderna”.

       Infine, è possibile rilevare un’esigenza diffusa di un nuovo consenso intorno alle evidenze etiche: essa nasce dal bisogno di definire con chiarezza le cose come sono e di fare il bene non per il risultato che se ne può trarre, ma per la forza del bene in se stesso. Si profila il desiderio di ritrovare la passione per la verità, l’amore a ciò per cui valga veramente la pena di vivere al di là di ogni calcolo o di ogni progetto misurato soltanto sull’orizzonte penultimo. “L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di redenzione che dà un senso nuovo alla sua vita”. Tuttavia, un amore solo umano “non risolve, da solo, il problema della vita. E un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato” (Ib., n. 26). Anche così si delinea il vero conflitto in gioco, quello fra la verità e la maschera: nonostante l’apparente trionfo della décadence, emergono i segni di un’attesa. In questo tempo di penuria il soffio dello Spirito si lascia percepire come inquietudine, risveglio, interesse e coinvolgimento per gli altri, per l’Altro. Proprio così, l’annuncio della speranza evangelica trova in questo contesto una nuova opportunità, come proposta di un orizzonte unificante di senso non ideologico al di là della rinuncia e della capitolazione nell’irrazionale.

 

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       Sulle frontiere della crisi della razionalità moderna e della sfida rappresentata dal riaffiorare dell’irrazionale non si gioca allora solo una battaglia dell’uomo con se stesso, ma una vera e propria lotta di Giacobbe, in cui la posta in gioco è la dignità stessa dell’essere umano, il suo destino trascendente e la qualità della vita per tutti. In questa lotta vince chi si lascia vincere: solo dove l’esistenza della persona è riconosciuta come dono da accogliere e rispettare, inviolabile nella sua sacralità, fondata eteronomamente nella Trascendenza, l’attività umana conosce dei limiti e delle misure di ordine deontologico e sfugge ai frutti dell’alienazione. La qualità etica dell’agire umano non sta nelle possibilità della ragione e nelle sue pretese di assolutezza, ma nel suo essere consapevole dei propri rischi e delle proprie capacità in campo etico e sociale, per inserirsi ordinatamente in un progetto di umanità solidale e di responsabilità morale nei confronti di ogni essere umano, specialmente del debole e dell’indifeso. Contro ogni deresponsabilizzazione motivata dalla rinuncia irrazionalistica, il Dio della fede cristiana si offre non come concorrente dell’uomo, ma come il suo ultimo garante e salvatore, nell’annuncio liberante che l’uomo è stato donato a se stesso dal Creatore e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato, sul piano personale come su quello della collettività. La sfida, che qui si profila oltre il tramonto delle ideologie e i rigurgiti irrazionalistici, è quella a riconoscersi e volersi pienamente umani, non nella solitudine di uno spirito sazio e prigioniero di sé, ma nella comunione di un patto di solidarietà e di alleanza fra gli abitatori del tempo e della grande casa del mondo e il Dio vivente, Mistero santo che tutto avvolge e di tutto è misura piena e definitiva. E che questo vada proposto con chiarezza e convinzione agli uomini e alle donne di questo tempo post-moderno è impegno assolutamente urgente per tutti, credenti e non credenti. Lo aveva intuito in maniera penetrante il Concilio Vaticano II, la cui parola resta una sfida ancora attuale e urgente alla coscienza di tutti: “Legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (Guadium et Spes, n. 31).