Sono tentato di proporre ai lettori un quesito: a quale codice civile appartiene il comma che ora citerò? Eccolo: «Quando uno straniero risiede nel nostro territorio, non deve essere né molestato né oppresso. Lo straniero residente deve essere trattato come il nativo». A commento di questo dettato legislativo vorrei allegare due esperienze personali antitetiche delle scorse settimane. La prima è legata alle ferie che ho appena trascorso sul lago di Como. Quando mi capitava di scorrere le modulazioni di frequenza della radio, mi imbattevo spesso in una nota emittente di un movimento politico, spesso aperta a un filo diretto con gli ascoltatori. Con tutte le variazioni fonetiche dei vari dialetti settentrionali, che ben conosco anche per le mie origini anagrafiche, il leit-motiv era costante: «Mandateli a casa loro! Cacciateli! Sono pericolosi, ci tolgono posti di lavoro, si allargano, sporcano e favoriscono la criminalità, vogliono una moschea in ogni quartiere…» e così via deprecando e, non di rado, inveendo.

         L’altra esperienza si ripeteva, invece, ogni mattina, quando sfogliavo i giornali e giungevo alle pagine degli spettacoli ove imperavano le cronache e le recensioni del Festival di Venezia. Non c’era giorno in cui sugli schermi del Lido non ci fosse un film che, con diversa tonalità, mettesse in scena proprio loro, gli stranieri immigrati. Penso al Villaggio di cartone del mio amico Olmi, una spoglia e pura parabola cristiana, o al Terraferma di Crialese, che ha impressionato la stessa giuria che gli ha assegnato il suo premio specifico, oppure all’intenso Là-bas di Guido Lombardo sulla piaga del caporalato, o ancora il documentario Io sono di Barbara Cupisti nella sezione “Controcampo”, per non parlare poi delle Cose dell’altro mondo di Patierno, ove lo stesso tema è trattato con un contrasto ironico.

         Ci sono, quindi, due volti differenti dell’Italia e, al di là delle professioni esteriori conclamate, quello autenticamente religioso e soprattutto cristiano è il secondo, anche se – tranne Olmi – forse tutti gli altri registi si dichiarano “laici”. È, infatti, lapidaria la frase che Cristo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo rivolge anche a quelli che non lo conoscevano: «In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me». E chi siano questi piccoli è subito specificato: affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati. In questa linea aveva ragione il card. Tettamanzi quando ai suoi critici milanesi replicava che, come vescovo, aveva semplicemente seguito il Vangelo. E confesso che mi hanno sempre affascinato le riflessioni del nuovo arcivescovo di Milano, il card. Scola, quando da Venezia proponeva la sua versione del “meticciato” culturale e sociale a cui siamo ormai votati e che dobbiamo faticosamente costruire e calibrare.

         Nessuno di quelli che incarnano la seconda prospettiva sopra delineata è così ingenuo da ignorare le difficoltà, le asperità, le tensioni di un simile incontro. La via dello scontro o del duello è facile e fin spontanea, e si arma di slogan efficaci di ritmo binario elementare (buono/cattivo, bianco/nero etc.). La via del confronto e del duetto, in cui le voci mantengono la loro identità anche antitetica – come accade in musica – ma si ascoltano e intrecciano, è più ardua, ma è l’unica cristiana e culturalmente degna e feconda, da imboccare senza troppe riserve e paure.

         P. S. La risposta al quesito che ho posto in apertura è semplice. Si tratta di una delle normative (ripetute con lievi variazioni) del codice dell’Israele biblico (Levitico 19,33-34; Esodo 22,20), retroproiettato ai piedi della vetta del Sinai durante la marcia dell’emigrazione ebraica dall’Egitto verso la terra della libertà. Certo, era una regime teocratico, tant’è vero che il comma continua in modo parenetico: «Tu amerai lo straniero come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri in terra d’Egitto». Ma una simile norma dovrebbe essere invidiata e imitata anche da uno stato moderno e “laico”.