«SVUOTÒ SE STESSO E DIO LO ESALTÒ»
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre. (Filippesi 2, 6-11)
Incastonato nel capitolo 2 della Lettera che san Paolo indirizza ai cristiani della città macedone di Filippi (dal nome del suo fondatore, Filippo II, padre di Alessandro Magno), l’inno che la liturgia di questa domenica di Passione ci propone è forse la citazione di un canto in uso nelle Chiese paoline. Nel Vangelo di Giovanni e negli scritti dell’Apostolo, la Pasqua di Cristo è spesso presentata come un’“esaltazione”, una “glorificazione” secondo un’immagine di tipo “verticale-ascensionale”. Ebbene, questo modo espressivo – che era alla base anche del racconto di san Luca sull’ascensione di Cristo – domina nel nostro testo che, però, introduce pure l’Incarnazione che è, invece, raffigurata con un’immagine “verticale-discensionale”.
Da un lato, si ha allora la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna, precipitando fino allo “svuotamento” (in greco kénosis) di tutta la sua gloria divina nella morte in croce, il supplizio degli schiavi, cioè degli ultimi degli uomini per poter essere, così, fratello dell’intera umanità. D’altro lato, però, ecco l’ascesa trionfale che si compie nella risurrezione quando Cristo si presenta nello sfolgorare della sua divinità, nella “esaltazione” gloriosa che è celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti.
L’inno si regge, dunque, su questo contrasto tra discesa e ascesa, tra umanità e divinità, tra morte e risurrezione. Nel primo movimento del canto il Figlio di Dio varca la distanza infinita che intercorre tra il Creatore e la creatura. Non teme di perdere i suoi tesori di grandezza, anzi, si “svuota” e si “umilia”, precipitando nell’abisso della mortalità, scegliendo la crocifissione, la morte più infamante nella civiltà antica. Ma è proprio da questa estrema e suprema solidarietà con la nostra misera umanità che parte il secondo movimento dell’inno.
Dalla vetta del Golgota ha inizio l’“esaltazione” pasquale del Cristo risorto, espressa attraverso la triplice ripetizione del “nome” che Gesù riceve in dono da Dio. Ora, è noto che nel mondo biblico il “nome” indica la persona e la sua dignità. Questo nuovo “nome”, che getta in adorazione tutte le creature – descritte secondo la tripartizione semitica del cosmo in «cieli, terra e sotto terra» - è Kyrios, “Signore”, il termine con cui nell’Antico Testamento, tradotto in greco e usato dai cristiani, si designava il nome sacro del Dio biblico, Jhwh.
Il Cristo glorioso risorto appare nella pienezza della divinità, come il Pantokrator, cioè il Cristo onnipotente che incombe trionfale dalle absidi delle basiliche paleocristiane o bizantine: egli reca ancora i segni della passione e morte, ma è ormai splendido nella luce della divinità, quella luce che si era eclissata sulla croce del Calvario, quando Gesù aveva “svuotato” se stesso della sua gloria divina, così da entrare nel grembo dell’umanità, fatto di limite, di peccato, di dolore e di morte. È la stessa luce che ora brilla di nuovo nella risurrezione, avvolgendo cielo, terra e inferi, vale a dire l’intero essere redento.