CONVERTITEVI

Print Mail Pdf
compartir  Facebook   Twitter   Technorati   Delicious   Yahoo Bookmark   Google Bookmark   Microsoft Live   Ok Notizie

 

 

            J’ai pleuré et j’ai cru: “ho pianto e ho creduto”. Bastavano questi due verbi a Chateaubriand per descrivere nel suo Génie du Christianisme (1802) la conversione che dal razionalismo scettico l’aveva ricondotto alla fede dell’infanzia. Anche a Gesù nella sua prima, lapidaria predica pubblica erano stati sufficienti due verbi per scuotere la coscienza dei suoi uditori: Metanoéite kai pistéuete, «convertitevi e credete!» (Marco 1, 15). Il verbo greco della conversione era significativo perché esigeva una sorta di torsione del nous, ossia della mentalità che doveva optare per una nuova visione della vita e dell’essere (verbo e relativo sostantivo risuoneranno ben 56 volte nelle pagine neotestamentarie). Più di taglio “spaziale”, ma semanticamente analogo, era il termine che le Scritture ebraiche avevano selezionato: shûb, cioè “ritornare”, invertendo la rotta sbagliata, vocabolo reso dall’antica versione biblica greca dei Settanta con un pregnante epistrofè, segno di una svolta radicale. E la mirabile parabola detta “del figlio prodigo” è quasi la sceneggiatura filmica di una perversione del percorso della vita e del “ritorno” in se stessi e verso la casa paterna lasciata prima alle spalle (si legga Luca 15, 11-24).

 

            Certo, le conversioni hanno tipologie differenti e possono ricevere denominazioni antitetiche secondo le diverse prospettive: quella di Magdi Allam, di cui tanto si è parlato in questi giorni, se è “conversione” per i cristiani, è “apostasia” per i musulmani. C’è anche la svolta politica che spesso, però, lascia una traccia di sospetto e può persino essere classificata sotto il termine realistico di “voltagabbana”. C’è la trasformazione ideologica da una concezione filosofica a un’altra (in filosofia si ha anche il procedimento di “conversione logica”, già illustrata da Aristotele). Ma la “conversione” per eccellenza rimane quella religiosa. Essa può segnalare il transito dall’ateismo o dall’indifferenza agnostica all’accoglienza del divino e della trascendenza secondo un Credo particolare. Ma può anche essere la ripresa ardente di una fede smarrita o appannata dalla consuetudine: «la conversione più difficile – scriveva un autore spirituale, Louis Evély, nel saggio C’est toi cet homme – è quella a cui tutti siamo chiamati, all’interno della nostra religione».

 

            Ed è interessante notare che uno dei più originali teologi del secolo scorso, di cui ebbi la fortuna di essere discepolo, il gesuita canadese Bernard Lonergan (1904-1984), nella sua opera  Method in Theology (1972), considerava la triplice categoria della conversione intellettuale, morale e religiosa come strutturale nella stessa epistemologia teologica, secondo una gradazione progressiva d’orizzonte, ma anche secondo un intreccio indissolubile. Alla sorgente, comunque,

 

della conversione religiosa c’è la teofania: è un atto esterno alla creatura che, attraverso mediazioni di vario genere, procede da Dio. È ciò che teologicamente è definito da san Paolo come “grazia”, cháris in greco, charitas in latino, ossia atto d’amore divino. Suggestiva è la frase dell’Apostolo che si stupisce lui stesso dell’asserto profetico su cui costruisce la sua dichiarazione: «Isaia arriva fino ad affermare: Mi sono fatto trovare [dice il Signore] anche da quelli che non mi cercavano: mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me» (Romani 10,20).

 

            Paolo ne era personalmente consapevole, dato che la sua è la figura più alta del “convertito”cristiano. La “Via di Damasco”, come è noto, è narrata tre volte negli Atti degli apostoli (cc. 9; 22; 26) e, se la caduta da cavallo è una licenza pittorica degli artisti cristiani, l’elemento capitale rimane l’inattesa irruzione divina: «All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Rispose: Chi sei, o Signore? E la voce: Sono Gesù, che tu perseguiti!» (9, 3-5). Stravolgendo con una sola lettera il celebre motto cartesiano, il famoso teologo protestante Karl Barth (1886-1968) sintetizzerà ogni nascita alla fede così: Cogitor, ergo sum, «sono pensato [“amato” secondo il linguaggio biblico], quindi sono». Paolo, per descrivere questa esperienza autobiografica, ricorre a una divisione netta della sua esistenza tra un “prima” e un “poi” opposti tra loro (Galati 1, 11-17; Filippesi 3, 3-17; 1 Timoteo 1, 12-16), oppure si affida semplicemente a un folgorante katelémften, “afferrato, impugnato, conquistato” da Cristo (Filippesi 3, 12).

 

            Il primato della grazia divina ovviamente non elide la libertà del chiamato che può sottrarsi o allentare i tempi della conversione. Significativo è il percorso dell’altro celebre convertito della storia, Agostino. Il fascino dell’ideologia, l’attrazione del piacere, le esigenze del successo lo trattengono a lungo nella palude di un’esistenza piacevole ma insoddisfacente. Alla fine, però, la voce di Ambrogio, il convincente vescovo di Milano e l’epifania divina celata sotto una voce infantile che lo invita: Tolle, lege; tolle, lege!, lo conducono a prendere in mano e a leggere il codice dell’epistolario paolino che il futuro santo apre su un appello decisivo: «Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri!» (Romani 13, 13-14).

 

            Era l’estate del 386: nasceva così uno dei maggiori Padri della Chiesa, sbocciava quel capolavoro che saranno le Confessioni, storia di una conversione, si apriva l’itinerario ideale di uno dei geni dell’umanità e si delineava anche il modello di ogni conversione, talmente intrecciata con la scelta ascetica del vescovo di Ippona da aver successivamente fatto designare i monaci nella loro professione di vita religiosa come conversi. Certo, tanti altri sono i convertiti emblematici, a partire dalla peccatrice evangelica o da Zaccheo, passando per Francesco d’Assisi o Ignazio di Loyola, fino al nostro Manzoni. Tante saranno le conversioni più modeste e nascoste che coinvolgeranno pure i transiti da una fede all’altra. Ma per tutti risuonerà sempre quel monito di Cristo: “Convertitevi!”, destinato anche a chi frequenta i luoghi di culto e si ritiene un credente che non ha bisogno di conversione. Due importanti teologi francesi del Novecento, Jean Daniélou e Yves Congar, per vie diverse giungevano, infatti, alla stessa conclusione: «Un cristiano non è che un pagano sulla via della conversione… Le nostre chiese sono ancora piene di pagani che vanno a messa…».