Ormai è diventata una sorta di insalata semantica in cui si versano termini tutt’altro che sinonimici come amore, eros, sentimento, sensualità, sessualità, carnalità, passione, libido, libidine e così via, cospargendoli delle spezie pesanti dell’ammiccamento piccante, dell’allusione eccitante e persino dell’ambiguità grossolana. In realtà, eros e amore, nella loro differente accezione ma anche nei loro intrecci (è significativo il superamento della netta antitesi  eros-agape, presente nel famoso saggio di Nygren, superamento suggerito dall’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI), costituiscono un sistema simbolico e ideale di primo piano nella storia del pensiero, a partire da quel codice capitale di riferimento che è stato il Cantico dei cantici biblico, naturalmente filtrato attraverso la lente dell’allegoria che ha assegnato alla coppia originaria del poemetto scritturistico altre e più eteree fisionomie.

            Attorno a questo sistema “amoroso” e ai suoi risvolti sacri e profani si è acceso l’interesse anche critico ed è di questi ultimi mesi la riproposizione, ad esempio, dei Trattati d’amore cristiani del XII secolo, in una bella edizione della Fondazione Valla (ed. Mondadori), così come Adelphi ha voluto tradurre Eros e Qabbalah di Moshe Idel che mostra anche l’aspetto blasfemo di una mistica ebraica che non esitava a scivolare nel nadir di una sorta di idolatria cananea (sì, quella dei vari Baal e Astarte della Bibbia) ove Jhwh ha commercio sessuale con la sua concubina demonica superna, mentre i più casti suoi fedeli sono imprigionati nelle reti delle rigide norme di purità rituale. In questa sequenza di scritti analitici dedicati alla simbolica sacrale dell’amore una particolare attenzione merita la versione italiana di un saggio che aveva conquistato Jacques Lacan, il quale confessava di essere approdato alla riflessione sul tema dell’amore «con l’abate Rousselot e tutta la disputa sull’amore fisico e sull’amore estatico» (così in Ancora, Einaudi 1983).

            Ora, Pierre Rousselot era un teologo gesuita, considerato oggi come uno degli artefici della cosiddetta “teologia fondamentale”, subentrata alla tradizionale apologetica. A soli 37 anni, agli esordi della prima guerra mondiale, il 25 aprile 1915, veniva ucciso proprio mentre stava negoziando la resa ai tedeschi del suo battaglione: il suo corpo, lasciato insepolto, non fu più ritrovato e quindi la sua memoria rimane affidata solo alla sua opera teologica che ha proprio nel saggio Il problema dell’amore nel Medioevo la prima espressione (era la sua “piccola tesi” per il dottorato in lettere alla Sorbona). Il testo viene ora offerto, accompagnato da un vasto e profondo apparato interpretativo approntato da Domenico Bosco che insegue i percorsi di uno scritto molto denso, intarsiato di citazioni e di rimandi, affidato a un linguaggio “tecnico” rigoroso ma capace anche di grandi sintesi e intuizioni. Il nodo germinale è quello del contrappunto tra l’amore per se stessi (che, se rimane esclusivo, degenera in egoismo) e l’amore per “l’altro da sé”, un contrappunto che genera armonia se viene coniugato all’interno dell’amore divino.

            Rousselot individua due modelli nella teologia medievale, entrambi votati a creare questa euritmia. Da un lato, c’è la concezione “fisica” di matrice aristotelico-tomista, adottata da Ugo di San Vittore e da san Bernardo: essa intesse una sintonia tra l’amore-brama e l’amore donativo. D’altro lato, sulla scia di Abelardo e nel fervore della scuola francescana, ecco la visione “estatica” che, come suggerisce l’etimologia stessa, conduce il soggetto “fuori di sé” facendolo attrarre e assorbire dall’oggetto del suo amore, l’”altro” che si trasfigura nell’”Altro” divino. Siamo, quindi, nel territorio della mistica nel quale vogliamo collocare un po’ liberamente un’altra testimonianza letteraria, tutta declinata al femminile. Si tratta del Neon Miterikon, un’antologia tardobizantina piuttosto eterogenea per genesi (le fonti sono varie: partono dalle celebri collezioni degli “apoftegmata”dei padri del deserto egizio e procedono fino al X secolo, passando attraverso testi popolari come la Storia Lausiaca di Palladio del VI secolo), ma tutta retta dalla presenza esplicita o implicita delle donne.

            Berenice Cavarra ne cura ora la versione accostandole un’imponente introduzione (non priva di qualche ripetizione e prolissità) e un puntiglioso apparato di note, cercando anche di ricomporre il fondale che precede l’opera e che comprende il monachesimo e l’ascetismo delle origini egizie (Antonio, Atanasio, Pacomio), ma che procede fino all’epoca bizantina, allargandosi  a macchia d’olio nell’area siro-palestinese e nell’Asia minore. Si ha, così, la possibilità di incrociare una dottrina spirituale che ha nell’ascesi il suo motore e nella lotta al vizio della gola un suo apice austero, ma soprattutto di precisare lo specifico femminile di queste “madri” del deserto (come dice il termine greco miterikon), paradossalmente modulato su una “virilità” (andréia) spirituale, uno specifico pronto però a svelarsi anche nel recinto delle mura domestiche e familiari e non solo nelle aspre solitudini del deserto. Anzi, può affiorare pure la prostituta redenta che indossa abiti maschili, celando ogni sua attrattiva sotto il manto dell’espiazione (famosa è la cortigiana Pelagia). La dimensione sessuale ha, quindi, un suo rilievo e l’eros popola non poche pagine dell’opera, ma ha il suo sbocco nell’esaltazione della verginità originaria o riconquistata attraverso la penitenza. Eppure non manca la festosa ammirazione per la bellezza dei corpi e della natura: è la libertà dell’amore trasfigurato che diventa appunto linguaggio mistico, come accadrà simbolicamente nell’Estasi di s. Teresa del Bernini.

                                                                 

Pierre Rousselot, «Il problema dell’amore nel Medioevo», a cura di Domenico Bosco, Morcelliana, Brescia, pagg. 241.

Berenice Cavarra, «La porta stretta», Edizioni Scritti Monastici Abbazia di Praglia (Padova), pagg. 371.