«Mio Signore, brillano le stelle e si chiudono gli occhi degli amanti. Ogni innamorata è sola col suo amato. E io sono sola, qui con te, o Signore!». «Un chiostro è il mio cuore /  ove tu scendi a sera / io e Te soli / a prolungare il colloquio». Ecco due testi – tra i mille possibili da citare – distanti tra loro secoli, che s’incrociano attorno a un unico linguaggio fatto di eros e di mistica. Sul primo scritto si distende il cielo notturno di Bassora scintillante di stelle: al respiro degli innamorati si unisce l’anelito spirituale di Rabi‘a, mistica musulmana dell’Irak, nata nel 713 e morta nell’801, prima schiava, poi flautista e infine maestra (senza nessuna formazione scolastica) di vita interiore. Al secondo frammento poetico non s’associa il silenzio altissimo del deserto o il vento d’Oriente, ma solo lo spazio dolce di un’abbazia lombarda, ove è vissuto fino alla morte, avvenuta nel 1992, padre David M. Turoldo.

            Da sempre e sotto ogni cielo amore e fede s’abbracciano e la Teresa d’Avila estatica del Bernini, nella chiesa romana di S. Maria della Vittoria, a poche centinaia di metri dalla confusione della Stazione Termini, ne è quasi l’immagine cristallizzata: la santa abbacinata e abbandonata in un’estasi mistico-amorosa e l’angelo-Cupido raccontano una parabola che nella tradizione ebraico-cristiana ha il suo codice poetico, simbolico e teologico in quel libriccino biblico fatto soltanto di 1250 parole, capolavoro di amore umano e divino: «Beato chi conosce i canti santi, ma ancor più beato chi canta il Cantico dei cantici!», esclamava Origene. Soprattutto a lui, però, è da addebitare una frattura ermeneutica che ha fatto oscillare quel poema sacro dalla sua santa carnalità verso un orizzonte angelicato e diafano: i volti affascinanti di Lui e di Lei, la coppia protagonista, si dissolvevano per lasciar affiorare il profilo di Dio (o di Cristo) e quello di Israele (o della Chiesa o di Maria).

            La parabola d’amore del Cantico diveniva, così, “allegoria” che in greco è un allei agoreuein, cioè l’occasione per “parlare in altra maniera”. Certo, gli afrori della sessualità, i giacigli sfatti, la nuda carnalità non erano la sostanza di quel poemetto, quasi fosse uno scritto erotico, scivolato per caso in una biblioteca ecclesiastica, come ironizzava Voltaire. Con buona pace della cosiddetta école voluptueuse (e la definizione è azzeccata), che alcuni esegeti del passato avevano messo in piedi per riportare il Cantico dei cantici a più sensuali paralleli egizi o arabi, l’opera biblica è un “dramma” (ci sono una donna e un uomo che dialogano, e un coro che interloquisce) che mira a un Oltre, pur ancorandosi saldamente alla realtà e al linguaggio amoroso. È, quindi, corretta la più recente esegesi che intreccia senza infrangerli i due profili, l’umano e il divino, attraverso un’ermeneutica “simbolica”, cioè – come suggerisce il greco sotteso a questo vocabolo – capace di “tenere insieme” eros e mistica.

            È un po’ questo anche il filo conduttore del nuovo commento al poema biblico dell’americano Robert W. Jenson, il quale per questa struttura “simbolica” del Cantico suppone un processo cronologico: «Divennero poesie del Signore e Israele quando furono introdotte nel Canone dei libri sacri. Forse giunsero da una qualche fonte, a noi ignota, in una qualche raccolta precanonica, e furono più tardi adattate per essere poesie del Signore e Israele, al fine di giustificare il loro posto nel Canone». Certo è che –  così come ora è nelle Scritture Sacre – il Cantico non è né una raccolta di poesia erotica né una crittografia spiritualistica, ma un canto d’amore divino iscritto nel simbolo dell’amore umano: è una coppia innamorata che parla un linguaggio d’amore trascendente e, contemporaneamente, è un Dio che parla il linguaggio degli innamorati. Affermava in uno dei suoi Sermoni sul Cantico s. Bernardo di Clairvaux: «In questo libro l’amore parla in ogni riga. Se qualcuno spera di afferrare il senso di ciò che legge, devi lasciarlo amare. Chi non ama ascolterà o leggerà invano questo Cantico».

            La compattezza di significati (Jenson parla anche di “analogia”, secondo la classica terminologia teologica) è sostanzialmente conservata in questo commento molto lineare e quasi narrativo che articola il testo originario in 23 unità: l’esegeta trascorre costantemente tra il significato “evidente” (una volta si diceva “letterale”) e quello “canonico”, sbocciato dall’essere il Cantico un libro “ispirato”. Si è, quindi, condotti per mano in modo lieve lungo i due registri inscindibili tra loro, a cui abbiamo finora rimandato nel nostro discorso, sia pure introducendo le attualizzazioni che ogni tappa del poema può sollecitare (c’è persino – e questo è molto “americano” – un rimando alla sit-com televisiva Sex and the City!). Ma è soprattutto nell’efflorescenza mistica da cui siamo partiti che si deve sempre scoprire l’atmosfera ultima del Cantico. E a questo proposito possiamo segnalare, concludendo, la nuova edizione del Cantico Spirituale di quel genio mistico e poetico che è stato s. Giovanni della Croce, uno dei vertici della letteratura e della spiritualità spagnola del Cinquecento. A curarla è Stefano Arduini dell’università di Urbino e a noi non resta che gustarla un’altra volta o per la prima volta («Dove ti sei nascosto, Amato, abbandonando me gemente? Come il cervo fuggisti dopo avermi ferito; uscii invocandoti e te ne eri andato…»), nella consapevolezza – come confessava un personaggio dell’Uomo senza qualità di Musil – che «non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici».

                                                                                 

Robert W. Jenson, «Cantico dei Cantici», edizione italiana a cura di Giuseppe Campoccia  e di Carla Malerba, Claudiana, Torino, pagg. 160.

Si veda anche Giovanni della Croce, «Cantico Spirituale» a cura di Stefano Arduini, Città Nuova, Roma, pagg. 294. Per una lettura “allegorica” teologico-politica sulla scia della tradizione giudaica, vedi invece Massimo Giuliani, «Eros in esilio», Medusa, Milano, pagg. 152. Suggestive anche le note di Giovanni Pozzi alla versione del Cantico proposta dal poeta francescano Agostino Venanzio Reali (1931-1994) in La poesia di Agostino Venanzio Reali, Morcelliana, Brescia, pagg. 150.