Il 13 ottobre 1759 Voltaire scriveva così a madame du Deffand: «Dove potete trovare una storia più interessante di quella del Giuseppe biblico, che diventa Controllore Generale in Egitto e riconosce i suoi fratelli? E vi par nulla Daniele che con tanta astuzia confonde i due vecchi vogliosi? E per quanto il libro di Tobia non sia un gran che, mi pare preferibile a Tom Jones». Non è difficile imbattersi in altre penne, ugualmente entusiastiche e similmente agnostiche, che si sono lasciate ammaliare dalle storie bibliche, a tal punto che Erich Auerbach nella sua celebrata Mimesis vedeva nell’Abramo pellegrino e nel vascello di Odisseo i progenitori dell’intera genealogia letteraria occidentale. Non per nulla anche un veemente demolitore dell’immaginario e dell’ideologia ebraico-cristiana come Nietzsche doveva riconoscere – negli appunti preparatori ad Aurora – che «tra ciò che proviamo alla lettura dei Salmi e a quella di Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera».
In verità – come attestano i sondaggi che ogni tanto vengono riproposti (ultimo è quello a largo spettro eseguito dalla Federazione Biblica Cattolica Internazionale che verrà presentato nella Sala Stampa Vaticana il prossimo aprile) – molti ormai hanno disertato da quella “patria” spirituale e culturale e si sono affrettati non tanto verso le distese gloriose e rigogliose della classicità, come auspicava Nietzsche, ma si sono dispersi nei rigagnoli di forme e modelli molto più modesti. Un esempio per tutti è l’iconografia contemporanea che non vuole e non sa più attingere a quell’«alfabeto colorato di immagini nel quale gli artisti hanno intinto per secoli il loro pennello», come lamentava Chagall. Senza essere apologetici a tutti i costi, sembra attagliarsi all’arsenale iconico dei nostri giorni lo sferzante detto divino del profeta Geremia: «Hanno abbandonato me sorgente d’acqua viva per scavarsi cisterne screpolate che non possono trattenere l’acqua» (2, 13).
Ecco, perché, senza allegare in avanscoperta istanze strettamente religiose, sulle quali bisognerà tuttavia dire qualcosa perché siamo in presenza pur sempre di “Scritture Sacre”, è necessario salutare con sana e “laica” adesione e condivisione la scelta di proporre queste Storie della Bibbia, tenendo nell’orecchio la citatissima domanda di Umberto Eco: «Perché mai i ragazzi delle nostre scuole devono sapere tutto degli dèi di Omero e quasi nulla di Mosè? Perché la Divina Commedia e non il Cantico dei cantici?». E le motivazioni le avevamo espresse insieme, tempo fa, indirizzandole a un ministro della Pubblica Istruzione, il linguista Tullio De Mauro (per altro attento alla petizione) – persone di cultura credenti e non – perché la Bibbia ritornasse nelle scuole come materia d’insegnamento, fuori dell’ora di religione, per ragioni squisitamente culturali. E forse anche religiose, ma di quella “religiosità” a cui rimandava uno spirito del tutto “laico” come Francesco De Sanctis quando nella sua opera Giovinezza si stupiva, già nell’Ottocento, che «nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, attissima a tener vivo il sentimento religioso che è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato».
Lasciamo, allora, da parte la gabbia asfittica del politically/culturally/religiously correct e godiamoci questi deliziosi volumetti che il “Sole 24 Ore” e il “Corriere della Sera” stanno per offrire ai nostri ragazzi, ma anche ai loro genitori o educatori. Sì, perché se è vero che il candore delle illustrazioni rimanda spontaneamente all’occhio dei bambini non ancora sporcato di pessime immagini e il racconto biblico ha tonalità destinate a orecchie non ancora ostruite dalle chiacchiere e dalle banalità adulte, è altrettanto vero che il succo di queste “storie della Bibbia” è un distillato di sapienza, prezioso anche per chi non ha mai accostato o sfogliato solo sbrigativamente le pagine sacre, ritrovandole forse troppo fitte o di ardua decifrazione. Basti solo scorrere l’album della Creazione – sia nel volume di carta, sia nel CD – per vedersi aperti davanti agli occhi i grandi temi del cosmo, della libertà, della morale, del male, della violenza, della civiltà.
Il tutto affidato a una felice parafrasi dell’antico fraseggio ebraico e all’essenzialità stupita delle illustrazioni, senza però indulgere al vizio del bamboleggiamento o della mitizzazione favolistica in cui incappano tanti sussidi didattici e, più in genere, la letteratura religiosa per l’infanzia. In un certo senso aveva ragione il Sartre dell’Essere e il nulla quando affermava che non ci sono bambini “innocenti”. Essi sono già persone in miniatura e hanno bisogno di percorsi confacenti ma non illusori. Dalla creazione l’itinerario proseguirà lungo tutte le tappe principali della “storia sacra” nella quale vicende umane e messaggio religioso s’intrecciano inscindibilmente, passando da Abramo a Giuseppe, da Mosè a Davide, da Elia a Giona e così via, per approdare alla fine a Gesù e alla sua grandiosa incidenza non solo nella nostra storia, ma anche nel pensiero e nell’etica dell’Occidente.
E non ci si lasci irretire dal pregiudizio laicista di chi si irrita solo a sentir evocare temi religiosi: la Bibbia, correttamente interpretata, non è solo il “grande codice” della nostra cultura, che senza di essa risulterebbe incomprensibile, ma è anche capace di adempiere al desiderio sopra citato di De Sanctis per una formazione umana, personale e interiore autentica. Nelle Mie prigioni Pellico, allora ancora esitante a livello religioso, confessava: «La lettura della Bibbia non mi diede mai la minima disposizione alla bacchettoneria, cioè a quella divozione malintesa che rende pusillanime o fanatico. Bensì mi insegnava ad amare Dio e gli uomini, a bramare sempre più il regno della giustizia, ad aborrire l’iniquità, perdonando agli iniqui».