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Fede aritmetica

di Carlo Maria Polvani

In una piacevole pubblicazione dal titolo Le Tabelline di Dio. Piccole nozioni di matematica evangelica (Roma, Áncora, 2020, pagine 148, euro 16), Enzo Romeo ha avuto l’idea di utilizzare i numeri citati nei Vangeli per offrire degli spunti di riflessione sui brani da cui essi sono tratti. Questo sforzo è tanto più benvenuto che la «Collana Parole di Vita», all’interno della quale il saggio è stato inserito, ha già offerto una interpretazione dei colori nella Bibbia, proponendo quindi cammini originali alla bellezza e alla ricchezza nella Sacra Scrittura. In sfiziosi capitoletti, il caporedattore e vaticanista del Tg2 riporta versetti, quasi sempre tratti dai Vangeli sinottici, in cui appaiono numeri dall’1 al 153. Per ogni brano, egli offre una concisa ma efficace infarinatura del contesto degli eventi che hanno portato gli Evangelisti a collegare una quantità numerica alle parole e le azioni di Gesù. Ad esempio, i numeri 1, 9 e 10 sono associati alla gratitudine, giacché solo uno dei dieci lebbrosi guariti da Gesù torna a ringraziare quest’Ultimo, che si interroga su come mai gli altri nove non lo abbiano fatto (cfr. Lc 17,11-19). A partire da questo divario numerico, l’autore propone una meditazione, come quella riferentesi all’esempio precedente, che porta a riflettere sullo squilibrio fra le tante suppliche di intercessione che spesso si recitano nel momento del bisogno — a volte, delle novene, per l’appunto — e le poche preghiere di ringraziamento che si offrono una volta superati i momenti difficili.

Questa struttura risulterà sicuramente efficace a genitori e ai catechisti che desiderano stimolare la fede dei più piccoli da una prospettiva diversa, che proprio i numeri consentono giacché assicurano precise misurazioni e diretti paragoni. In questo senso, anche i meno piccoli troveranno la lettura di questo libro alquanto accattivante; per loro, infatti, nella seconda parte del libro, sono riportate, in modo accessibile e chiaro, le grandi scoperte della matematica per sottolineare come questa disciplina sia un veicolo privilegiato per esaminare concetti astratti e, al tempo stesso, sia una misura insita alla struttura stessa della natura. Queste due qualità complementari della matematica sono forse la ragione per cui la fede e il simbolismo numerico hanno condiviso una storia comune.

Nel contesto del giudeo-cristianesimo, l’uso più estensivo dell’aritmetica per sondare i misteri della Rivelazione è riconducibile alla qaballah ebraica, anche se, specialmente durante l’umanesimo, non mancarono figure di spicco — quali il leggendario Pico della Mirandola, l’agostiniano Johannes Reuchlin e il francescano Francesco Zorzi — che ne proposero una versione cristiana. A volte guardata con sospetto a causa della sua propensione all’esoterismo, la Cabala fu non di meno fonte di ispirazione per teologi e filosofi del calibro del Rabbino Nachmanide, forse perché si reggeva sull’ipotesi che i testi sacri contenessero significati ermetici e imperscrutabili. Da lì, la necessità del ricorso a un linguaggio puro come quello dell’aritmetica per decodificarli per mezzo di sistemi alfanumerici, quali il mispar siduri, che associava a ogni lettera ebraica il valore numerico ordinale della posizione nell’alfabeto (ad alef, א, corrispondeva l’1; a bet, ב, il 2, a gimel, ג, il 3 e così via fino all’ultima delle 22, tav, ת); sommando il valore di ogni lettera contenuta in una parola, si stabilivano relazioni teologiche come quella fra la parola “unicità” (achad) e “amore” (ahavah), la cui somma dei valori delle lettere (AChD, 1+8+4 e AHVH, 1+5+2+5) rivelava lo stesso numero (e per di più, primo e quindi, indivisibile): 13.

Di sicuro questo approccio aveva avuto precedenti nella isopsefia (da ισος, “uguale”, e ψηφος, “conteggio”) usata nell’antica Grecia da Pitagora, ma i maestri cabalisti, nelle loro intense ricerche, portarono la disciplina della ghematriah a livelli raffinatissimi. Ossessionati dallo stabilire sempre più relazioni per scoprire sempre più significati, i maestri della cabala spinsero sempre più in là i sistemi matematici da loro utilizzati per mezzo di nuovi sistemi di calcolo che considerassero le potenze dei numeri e le loro addizioni seriali. Nel mispar katan, il valore di ogni lettera era troncato dello zero; nel mispar kidmi, i valori delle lettere erano determinati dalla serie progressiva costruita sui valori iniziali (alef era 1, bet era 1+2=3; gimel era 1+2+3=6, e così via); nel mispar p’rati e nel mispar meshulash, il valore di ogni lettera era rispettivamente il quadrato o il cubo del valore standard (alef era associata a 1² o 1³ e quindi sempre a 1; bet, a 2² o a 2³ e quindi a 4 o a 8; gimel, a 3² o 3³ e quindi 9 o 27, e così via); nel mispar ha-akhor, il valore della lettera era il risultato della moltiplicazione del suo valore con quello della sua posizione in una parola specifica. Ancora insoddisfatti, i cabalisti ricercano nelle permutazioni e nella circolarità ulteriori possibilità: nell’atbash, i valori delle consonanti furono determinati nell’alfabeto concepito in forma speculare (alef riceveva il valore di tau, ת, l’ultima lettera; bet il valore di shin, ש, la penultima lettera; gimet dell’ante-penultima, resh, ר, e così via); nell’albam, l’alfabeto era diviso a metà in due serie di 11 lettere (la prima lettera della prima serie prendeva il valore della prima lettera della seconda serie, la seconda della prima serie quello della seconda della seconda serie, e così via); nell’apagad, l’alfabeto era percepito in forma circolare, assegnando a ogni lettera il valore della successiva (alef riceve il 2 di bet, bet il 3 di gimel e così via fino a tau, che riceveva il valore 1 della alef).

Queste squisitezze matematiche testimoniano di una fede così determinata a impregnarsi dei misteri della fede, da affrontarli coniugando armoniosamente lo strumento di comprensione più tipicamente umano — il linguaggio — con le funzioni mentali più astratte e formali a disposizione dell’umano — la matematica. Non stupisce che, usando un procedimento così raffinato, la cabala riuscì a cimentarsi con ardue questioni teologiche, tra le quali l’essenza dell’alterità di Dio, la Sua conoscibilità per mezzo del Creato e la ricerca di esperienze mistiche e di forme estetiche per superare i limiti del pensiero umano. Insomma, bene ha fatto il Dott. Guerra a ricordare le parole del Beato Niels Stensen, vescovo e naturalista danese più conosciuto col suo nome latinizzato, Niccolò Stenone, nonché padre della stratigrafia (il ramo della geologia che studia la configurazione delle rocce sedimentarie): «Belle sono le cose che si vedono, più belle quelle che si conoscono, bellissime quelle che si ignorano».

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 09/02/2020