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La benzina di Dio

Dalla genetica alla genomica

di Carlo Maria Polvani

Per spiegare la trasmissione dei caratteri ereditari, Charles R. Darwin (1809-1882) perfezionò la teoria della pangenesi, ipotizzando che tutte le cellule del corpo producessero delle particole portatrici di informazioni genetiche (dette gemmule), che aggregandosi nei gameti (gli ovuli e gli spermatozoi), permettevano alla prole di ricevere tutto (da lì, la denominazione pangènesis) il patrimonio genetico dei genitori. Il padre dell’eugenetica nonché cugino di Darwin, Francis Galton (1822-1901), conducendo esperimenti sui conigli, mise però in questione l’esistenza stessa delle gemmule; e il padre della genetica moderna nonché religioso agostiniano, Gregor J. Mendel (1822-1884), sottoponendo con pazienza e rigore le sue osservazioni sperimentali sull’ibridizzazione delle piante a un analisi probabilistica, dimostrò che solo la metà del patrimonio genetico di ogni genitore veniva tramandato a un discendente.

All’incirca trent’anni dopo la scomparsa dell’abate del monastero di Brno, Thomas H. Morgan (1866-1945), esaminando la riproduzione del moscerino della frutta (Drosophila melanogaster), postulò che i tratti ereditari fossero contenuti nei cromosomi, di cui una sola copia delle due paia presenti nel nucleo cellulare era trasmessa durante i processi riproduttivi. E altri trent’anni dopo circa, Oswald T. Avery (1877-1955), Colin M. MacLeod (1909-1972) e Maclyn McCarty (1911-2005) intuirono che una specifica molecola contenuta nei cromosomi fosse depositaria del materiale genetico: l’acido desossiribonucleico (conosciuta meglio con l’acronimo dna, da deoxyribonucleic acid).

A partire dagli anni cinquanta, l’allora nascente ramo della biochimica denominato biologia molecolare, concentrò i suoi sforzi sulla struttura del dna, scoprendo che tale macro-polimero iper-compattato — la lunghezza totale del dna racchiuso nelle cellule del corpo umano supera la distanza della terra al sole — è formato dalla sequenza di tre miliardi di basi azotate – l’adenina (a), la citosina (c), la guanina (g) e la timina (t) — connesse l’una all’altra come dei pioli su una scala a chiocciola i cui passamano si intrecciano in una doppia ellissi. Ed è proprio l’ordine delle quattro basi azotate propriamente decifrato grazie al codice genetico — svelato da Marshall W. Nirneberg (1927-2010), Hab G. Korana (1922-2011) e Robert W. Holley (1922-2003) — a permettere la corretta sintesi delle proteine necessarie per il mantenimento dei processi biochimici vitali. Infatti, a ognuna delle 64 (43) possibili combinazioni di tre basi consecutive dette codoni, è associato uno dei venti amino acidi ordinari (per esempio il codone gta designa la valina, mentre il gaa indica la glutammina) da assemblare in maniera precisa per la sintesi degli enzimi responsabili delle reazioni chimiche indispensabili al metabolismo degli organismi viventi (per esempio l’emoglobina che assicura il trasporto dell’ossigeno nei globuli rossi).

Col tempo si è notato che solo una piccola percentuale del dna, meno del 5 per cento, è direttamente utilizzata nella sintesi delle proteine – il restante 95 per cento avendo altre funzioni che restano ancora da delucidare — e che l’accuratezza del codice genetico è tale da far sì che la mutazione di una singola base azotata può avere conseguenze funeste.

Si consideri l’esempio dell’anemia falciforme (così chiamata per la forma a falcetto che assumo gli eritrociti) che affligge almeno 30 milioni di persone nell’Africa sub-sahariana, uccidendone oltre 100.000 ogni anno. In questi pazienti, su milioni di milioni di basi, al posto di una timina si trova un’adenina; e questa mutuazione puntuale trasforma proprio un codone gta in un codone gaa, facendo sì che l’emoglobina sintetizzata perda parte della sua funzionalità poiché, fra i tantissimi amino acidi che la compongono, una valina è rimpiazzata da una glutammina.

Nel 1985, Renato Dulbecco (1914-2012) lanciò quindi l’idea di un’ampia collaborazione fra gli scienziati di tutto il mondo per definire al più presto l’intera sequenza del dna racchiuso nelle 23 paia di cromosomi umani. Cinque anni dopo, i National Institutes of Health (Nih, il centro nazionale per le ricerche scientifiche statunitense) vararono il Progetto genoma umano (o Hgp da Human Genome Project), sotto la guida del solo scienziato oggi ancora vivente dei quattro che nel 1953 avevano scoperto la struttura del dna: James D. Watson (1928-), Francis Crick, Maurice H.F. Wilkins (entrambi, 1916-2004) e Rosalind Franklin (1920-1958).

L’Hgp, completato nel 2003, è da ritenersi una pietra miliare negli studi genetici, tanto più che ha dato vita a una nuova disciplina scientifica: la genomica. Quest’ultima, abbinando la bioinformatica alla biochimica, si prefissa di studiare la funzionalità di tutto il patrimonio genetico umano. È alquanto probabile che i futuri progressi della genomica siano tali da scaturire, in tempi relativamente brevi, in notevoli progressi nella lotta non solo contro le malattie genetiche — come la corea di Huntington che colpisce il sistema nervoso centrale, o la molto più rara, sindrome di Hutchinson-Gilford, che causa l’invecchiamento precoce — ma anche contro patologie più comuni come il diabete o l’asma.

Gran merito dei successi finora raggiunti è attribuibile all’impegno dell’attuale direttore del Nih, Francis S. Collins (1950-) che, succedendo a Watson alla testa dell’Hgp nel 1993 dopo aver diretto i team scientifici che localizzarono proprio i geni responsabili per la corea di Huntington e per la sindrome di Hutchinson-Gilford, non solo riuscì a portare a termine il Progetto genoma umano con due anni d’anticipo sulla scadenza prevista ma, cosa ancora più essenziale, seppe salvaguardare il diritto d’accesso universale ai dati scientifici sul dna umano, opponendosi ai tentativi di enti privati di rivendicare su di esso dei diritti commerciali.

L’autorevolezza scientifica di Collins e soprattutto, la sua universalmente riconosciuta statura morale che gli hanno valso fra l’altro di essere nominato membro della Pontificia Accademia delle Scienze nel 2009, hanno fatto sì che il suo saggio The Language of God (“Il linguaggio di Dio”, Sperling & Kupfer, 2007) — i cui principi basilari sono stati ripresi nelle paginette del delizioso libretto appena apparso La genetica di Dio (Roma, Lit Edizioni, 2018, pagine 42, euro 5) — sia stato oggetto di vivo interesse nell’ultimo decennio.

I suoi scritti sono infatti una bellissima testimonianza di come il lavoro di ricerca scientifica possa avvicinare alla fede anche un investigatore agnostico come lo fu Collins nella prima metà della sua vita. Ovviamente, ogni lettore valuterà la validità degli argomenti avanzati, fra cui quello di vedere nel “principio antropico” — che Jean Guitton (1901-1999) riassumeva nella costatazione che l’universo sembrerebbe calibrato con «una precisione inimmaginabile a partire da alcune grandi constanti» che lo guidano nella direzione dell’apparizione di una vita cosciente (Dio e la scienza. Verso il metarealismo, Bompiani, 1992) — un disegno della divina provvidenza.

Di sicuro però, il direttore del Nih non potrà essere accusato di aver violato la prima regola del filosofare enunciata da Isaac Newton nei Principi matematici della filosofia naturale (di cui Einaudi offre una nuova edizione a cura di Franco Giudice, 2018, pagine 240, euro 21): «Non si devono ammettere più cause delle cose naturali di quelle che sono vere e che bastano a spiegare i fenomeni». E il fatto che poche critiche siano giunte persino da quanti difendono il principio che il sapere scientifico debba definirsi secondo l’assioma di Ugo Grozio (etsi Deus non daretur) è prova di quanto sia possibile stabilire un rapporto armonico tra scienza e fede, proprio come Collins è riuscito a fare, anche a livello personale, diventando amico di uno dei rappresentanti più agguerriti del militantismo ateo, Christopher E. Hitchens (1949-2011).

Quanti hanno prima perso e poi riscoperto la fede spesso ne apprezzano intensamente il valore. Nel 2013, Collins ammetteva candidamente al «New York Times» che la sua vita era cambiata con la lettura di Mere Christianity di Clive Staples Lewis (1898-1963; proposto nella Piccola Biblioteca Adelphi n. 395, Il Cristianesimo così com’è, 1997), che come lui si era convinto in gioventù dell’impossibilità di un’origine divina dell’universo per poi aderire, dopo una lunga lotta interiore, alla Chiesa d’Inghilterra.

In tale preziosa raccolta di scritti basati su conferenze tenute alla Bbc fra il 1941 e il 1944, l’autore delle Cronache di Narnia — e intimo amico di un devoto cattolico suo collega a Oxford, J.J.R. Tolkien (1892-1973) — usò un’allegoria, adatta all’epoca industriale dominata dai motori a scoppio, che colpì il futuro direttore del Progetto genoma umano: «Dio ci ha creati, inventandoci come l’uomo progetta un motore. Un’automobile è pensata per andare con la benzina e non funziona bene con altri carburanti. Or dunque, Dio ha disegnato la macchina umana per andare bene solo con Se stesso».

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 07/06/2018.