Print Mail Pdf
condividi  Facebook   Twitter   Technorati   Delicious   Yahoo Bookmark   Google Bookmark   Microsoft Live   Ok Notizie

polvani

Un paradosso per spiegare l’infinito

di Carlo Maria Polvani

Nel suo ultimo libro — Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, che segnò la fine dall’era della fisica aristotelica e l’inizio di quella della fisica classica — Galileo Galilei introdusse un paradosso tanto difficile da risolvere quanto facile da esporre. In matematica, i numeri che hanno uno sviluppo decimale sono detti “reali”, mentre quelli interi sono chiamati “naturali”; un numero naturale la cui radice quadrata produce un altro numero naturale (per esempio 25 poiché 25=52=5x5) è denominato “quadrato perfetto”. A prima vista, solo pochi naturali parrebbero essere anche dei quadrati perfetti; usando la tavola pitagorica, infatti, si nota che fra i primi cento naturali, ve ne sono solo dieci: 1 (12), 4 (22), 9 (32), 16 (42), lo stesso 25 (52); 36 (62), 49 (72), 64 (82), 81 (92) e infine, 100 (102). Tuttavia, è impossibile non costatare che qualsiasi naturale messo al quadrato darà sempre un numero la cui radice quadrata corrisponde a se stesso; e quindi che, per ogni naturale ci sarà sempre un quadrato perfetto corrispondente e viceversa. Di conseguenza, ci dovrebbero essere tanti quadrati perfetti quanti ci sono naturali.

Per chiarire il paradosso di Galileo è alquanto utile fare riferimento al ramo della matematica ideato da Georg Cantor (1845-1918), conosciuto come la teoria degli insiemi. Sia l’insieme dei numeri naturali, sia l’insieme dei numeri quadrati perfetti sono infiniti, poiché contengono una quantità illimitata di elementi. Il loro livello di infinità però, non è lo stesso, giacché ogni naturale moltiplicato per se stesso genera un quadrato perfetto, ma la radice quadrata di un qualsiasi naturale non sempre produce un altro naturale. Il già menzionato 25 è sia un elemento dell’insieme dei naturali (non ha decimali), sia un elemento dell’insieme dei quadrati perfetti (la sua radice quadrata è uguale a 5); ma 26 appartiene solo all’insieme dei naturali e non a quello dei quadrati perfetti (la sua radice quadrata è un decimale uguale all’incirca a 5,099019), anche se il suo quadrato 676 (262) è da annoverarsi sia fra i quadrati perfetti sia fra i naturali. Per quanto bizzarro possa sembrare, si deve concludere — parafrasando La fattoria degli animali di Orwell — che tutti gli insiemi infiniti sono infiniti, ma che alcuni insiemi infiniti sono più infiniti degli altri.

In realtà, molti secoli prima, era stata la filosofia a usare il potente strumento del paradosso — parà αρά (contro) e dòxa (opinione comune) — per tentare di capire la nozione d’infinito. Nel difendere la visione ontologista secondo la quale le entità empiriche sono riconducibili a un ente unico, la scuola eleatica aveva trovato in Zenone (489-431 prima dell’era crisitana) un maestro formidabile della reductio ad absurdum. Per l’allievo di Parmenide, le realtà osservabili, nella loro essenza, non potevano essere molteplici poiché, in tal caso, sarebbero state al tempo stesso, infintamente piccole — in quanto divisibili in enti dalle dimensioni sempre più ridotte — e infinitamente grandi, in quanto assemblabili in enti dalle dimensioni sempre più smisurate. Proprio le nozioni di continuità e di divisibilità dell’essere spinsero i pensatori greci a utilizzare i numeri nelle loro cogitazioni sull’infinito. Fra due numeri naturali non esistono altri numeri naturali, ma esistono dei numeri reali (a metà strada fra il 5 e il 6, si trova il 5,5); e fra due numeri reali, per quanto piccoli o per quanto grandi essi siano, si possono sempre trovare altri numeri reali (a metà strada fra il 5,0 e il 5,5, si trova il 5,25; a metà strada fra il 5,25 e il 5,5, si trova il 5,375, e così via...).

I reali sembrerebbero quindi indicare la continuità dell’infinito, mentre i naturali la sua divisibilità... sempre che la prima categoria di numeri non possa essere ricondotta alla seconda. Infatti, sia la scuola di Pitagora — con lo studio delle grandezze incommensurabili — sia quella di Euclide — con il metodo di sottrazione alternata della antyphairesis — notarono che alcuni reali, detti “razionali”, potevano essere espressi come delle frazioni di naturali (per esempio 5,5 = 11/2; 5,25 = 21/4; 5,375 = 43/8), mentre altri, detti “irrazionali”, dalle decimali infinite, non potevano esserlo (per esempio la radice quadrata di 5 è un numero senza fine le cui prime cifre sono 2,23606...). E guarda caso, proprio fra gli irrazionali svettavano costanti universali quali l’insostituibile π (3,145926… senza il quale è impossibile misurare le dimensioni precise di un cerchio) o il magico φ φ (1,618033… senza il quale è impensabile calcolare le proporzioni auree di un poligono). E così, «la continuità, l’infinitesimale e l’infinito» — che, secondo Bertrand Russell, erano il fulcro dei ragionamenti «incommensurabilmente sottili e profondi» di Zenone — diventarono, per più di venti secoli, il luogo di discussioni interminabili fra la filosofia e la matematica.

Il magnifico saggio di Umberto Bottazzini, Infinito. Raccontare la matematica, ora edito da Il Mulino (Bologna, 2018, pagine 278, euro 15), propone appunto un racconto, appassionato e appassionante, di suddetta dialettica che ha coinvolto, volenti o nolenti, i pensatori più significativi della nostra cultura: da Democrito ad Archimede, da Keplero a Pascal, da Locke a Leibniz, da Hume a D’Alembert, da Kant a Lagrange. Forse, la squisita raffinatezza dei dibattiti esposti con maestria dall’ordinario di storia della matematica all’università di Milano giustificano l’ironia amara di Jorge Luis Borges — secondo cui, l’infinito è il «concetto che corrompe e altera tutti gli altri» — la risolutezza violenta di Friedrich Nietzsche, per cui non c’è «nulla di più terribile» che l’infinito, e persino, la sentenza tagliente (anche se è indelicato utilizzare tale espressione per lo scienziato che finì ghigliottinato dopo essere stato il primo presidente della Assemblée Nationale e il primo sindaco di Parigi) di Jean-Sylvain Bailly, per cui esso è «l’abisso in cui affondano i nostri pensieri».

Il Laureato 2015 del Whiteman Memorial Prize della American Mathematical Society è sicuramente riuscito a dimostrare che, nel corso della storia del pensiero occidentale, l’infinito è riuscito a mettere d’accordo i più improbabili alleati — lo scomunicato Baruch Spinoza (1632-1677) e il gesuita Cristoforo Clavio (1538-1612), che refutavano la tesi del gesuato Stefano Degli Angeli (1623-1697) sulla “teoria degli infinitesimi” (cioè il continuo è composto da un serie di indivisibili) — e a convertire i più scettici detrattori, Evangelista Torricelli (1608-1647), che dapprima non stimava il “metodo degli indivisibili” (cioè un antenato del calcolo integrale) introdotto dal mentore del Degli Angeli, Bonaventura Cavalieri (1598-1647) e lo trasformò poi in un potente strumento algebrico al punto di commentare la sua scoperta con poca modestia: «Mi muove a compassione la vecchia geometria, la quale non conoscendo o non ammettendo gli indivisibili (...) scoprì così poche verità che una penosa povertà di idee è pervenuta fino all’età nostra».

Probabilmente, tutto è sempre risultato smisurato e arcano intorno all’infinito. Non si saprà mai cosa spinse John Wallis (1616-1703) a scegliere, nella sua Arithmetica infinitorum, un otto coricato — ∞   — come suo simbolo. Il chierico puritano stava forse pensando al lemniscus, ossia il nastro con cui i romani adornavano le corone, o all’analemma (anàlemma), ossia la figura che la posizione del sole, presa alla stessa ora ogni giorno, traccia nel cielo nell’arco di un anno? Di sicuro, poco dopo di lui un altro ecclesiastico celebre si appassionò d’infinito: il cardinale savoiardo Hyacinthe-Sigismond Gerdil (1718-1802).

Prefetto di Propaganda Fidei, nonché favorito del conclave di Venezia che elesse Pio VII nel 1800, il barnabita autore del trattato L’infini absolu che si voleva una riposta agli Élements de la géometrie de l’infini di Bernard de Fontenelle (1657-1757), fu professore a Macerata, la città natale di Matteo Ricci (1552-1610). Al Collegio romano, quest’ultimo si era imbevuto della matematica del sullodato Clavio, senza la quale il calendario gregoriano non sarebbe mai entrato in vigore nel 1582. In quell’anno, il gesuita trentenne sbarcava a Macao e abbagliando gli scienziati cinesi con la sua perizia in aritmetica e in astronomia, riusciva a essere ammesso alla corte imperiale nell’arco di un ventennio. Lo Studioso confuciano del Grande Occidente aveva fatto della matematica dell’infinito lo strumento di un nuovo modello di missionarietà — teorizzato da un altro suo famoso insegnante, Alessandro Valignano (1539-1606), che due anni dopo la Battaglia di Lepanto (1571), era stato nominato visitatore delle missioni delle Indie orientali — che rispettasse e valorizzasse le differenze culturali di ogni popolo e di ogni nazione. Compiendo tanti piccoli passi, senza strappi, la distanza abissale fra la cultura cinese e il cristianesimo era stata colmata... prova che, anche nell’evangelizzazione, «la continuità, l’infinitesimale e l’infinito» formano una poderosa triade.

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 16/10/2018.