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Spazio e senso

Triangoli, quadrati e cerchi

di Carlo Maria Polvani

Sono tante le persone che si ricordano di aver imparato alle scuole medie il primo e il quinto dei cinque postulati d’Euclide: «fra due punti passa una sola retta» e «per un punto esterno a una retta passa una sola parallela alla retta data». Sono tante poi quelle che si ricordano la dimostrazione alla lavagna, del loro primo professore di matematica, del teorema di Pitagora: «In un triangolo rettangolo, la somma dei quadrati della lunghezza dei due cateti (i due lati congiunti dall’angolo retto) è uguale al quadrato della lunghezza dell’ipotenusa (il lato a esso opposto)». Ma non tutte si sono mai chieste se la portata di questi assiomi e di questo teorema andasse ben al di là della geometria.

Per poter rappresentare lo spazio e gli elementi che lo compongono, gli uomini dovettero postulare l’esistenza di categorie astratte e fisse: lo fecero concependo degli assiomi che, per definizione, non potevano essere dimostrati. Gli uomini ritennero poi necessario organizzare queste categorie intorno a regole certe e coerenti fra loro: ci riuscirono sviluppando i teoremi che, invece, dovevano essere dimostrati. Solo così potettero pervenire a delle rappresentazioni sostanzialmente fedeli alle informazioni veicolate dai loro sensi; questi ultimi però imposero loro due gradi di libertà di movimento contrapposti: il primo derivante dalla legge di gravitazione universale che fa cadere dall’alto in basso tutti gli oggetti sulla Terra — la verticale — e il secondo inerente alle limitazioni della prospettiva che configura le immagini nella mente umana per mezzo di proiezioni di punti di fuga sull’orizzonte — l’orizzontale. Poiché la relazione fondamentale fra l’asse verticale e l’asse orizzontale è l’angolo di 90° (si noti che il quarto postulato euclideo prevede che tutti gli angoli retti siano congruenti, ossia uguali) e poiché la figura più essenziale che li metta in rapporto è il triangolo rettangolo (si noti che utilizzando il secondo postulato sull’infinitezza delle rette, si riesce a dimostrare che la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180° e quella degli angoli esterni è di 360°, ossia un ritorno al punto di partenza), essere a conoscenza dell’equazione che collega i tre lati di un triangolo rettangolo equivale a conoscere la regola basilare della nostra percezione spaziale.

Forse per questo, sono state ritrovate tracce della conoscenza del teorema di Pitagora — per lo più testimoniate dal ritrovamento di tabelle di “terne pitagoriche” — i.e. tre numeri corrispondenti all’equazione a2 + b2 = c2 quali: (3, 4, 5), (5, 12, 13) visto che (32 + 42 = 9 +16 = 25 = 52) e (52 + 122 = 25 + 144 = 169 =132) – in varie culture antiche — almeno 5.000 anni prima di Cristo, nelle Shulba Sutras indiane; quasi 2.000 prima di Cristo, nella tavoletta babilonese Timplinton 322 e 1.000 anni prima della nostra era, nel trattato cinese Zhoubi Suanjing scritto dall’astronomo imperiale Shang Gao. Non si sa con certezza se questi ritrovamenti indichino scoperte indipendenti l’una dall’altra, né se la leggenda della prima dimostrazione del famoso teorema — che narra che Pitagora (570 a.C. - 495 a.C.), notando sul pavimento di un palazzo di Samo, una piastrella quadrata spezzata esattamente sulla dialogale così da configurare due triangoli rettangoli uguali, ebbe la folgorazione di comparare le aree dei quadrati che andavano a formarsi sui tre lati di detti triangoli grazie alle piastrelle adiacenti (cfr. Fig. 1) – sia veridica.

Si ritiene però che anni prima, a Milo, l’uomo che Aristotele considerava il padre della filosofia occidentale aveva avuto l’arguzia di mettere in rapporto il triangolo non con il quadrato, ma con la figura perfetta per eccellenza, il cerchio (d’altronde, il terzo postulato euclideo recita che «dato un centro e un raggio si può costruire un solo cerchio»). Talete (624 a.C. - 545 a.C.) diede infatti il suo nome al teorema che detta che «un triangolo all’interno di un cerchio o di un semicerchio, avente come vertici i due estremi del diametro e qualsiasi punto sulla circonferenza, risulta sempre rettangolo» (cfr. Fig. 2). Le dimostrazioni di Talete e di Pitagora messe assieme gettarono le basi della trigonometria (τρίγωνον triangolo e μέτρον misura). Grazie al seno e al coseno (i rapporti rispettivi dei cateti sull’ipotenusa), alla tangente e alla cotangente (il rapporto fra i due cateti e il suo inverso), le misurazioni degli spazi circolari non ebbero più segreti… e gli uomini poterono illudersi di avere a loro disposizione un sistema di raffigurazione certo della realtà visibile… almeno fino all’avvento della geometrie non euclidee (quelle che, non a caso, rimpiazzano il quinto postulato di Euclide con assiomi del tipo di quello di Reimann, «due rette qualsiasi di un piano hanno sempre almeno un punto in comune»).

Che lodevole iniziativa ha avuto quindi il professore Marco Andreatta ad aver dedicato la sua ultima opera a La Forma delle cose. L’alfabeto della geometria (Biologna, Il Mulino, 2019). Il suo libro merita di essere qualificato con l’espressione utilizzata dallo stesso autore per descrivere i contributi del grande Federigo Enriques (1871-1946): «Uno splendido esempio di divulgazione scientifica di alto livello». Seguendo per l’appunto le orme del matematico e filosofo livornese che si rifugiò a San Giovanni in Laterano per sfuggire alla persecuzione nazifascista, il docente dell’università di Trento non solo ha saputo spiegare le raffinatezze e l’evoluzione della geometria — mostrando come questa si fosse arricchita nella sua lunga storia dei contributi di altri rami della matematica quali l’algebra e il calcolo infinitesimale — ma non ha voluto eludere il dibattito sulla valenza filosofica della geometria stessa — che aveva appunto contrapposto Enriques a Benedetto Croce e a Giovanni Gentile — il cui fulcro potrebbe essere riassunto così: la geometria è un mero strumento di descrizione della realtà o lo schema di base insito nella realtà stessa?

Per illustrare questa problematica si consideri il lavoro di un alunno di Pitagora: Teodoro di Cirene (465 a.C. - 398 a.C.). Anche lui volle divertirsi con i triangoli rettangoli e ne accosto l’uno all’altro, aumentando però la lunghezza delle ipotenuse progressivamente secondo le radici quadrate dei numeri interi: 2, 3, 4, 5, . Venne a crearsi la spirale di Teodoro (cfr. Fig. 3; che per quanto la matematica abbia poco a che fare con la superstizione, si richiude arrivando al triangolo rettangolo la cui ipotenusa è uguale alla radice quadrata di 17), una figura magnifica che affascinò nei secoli, matematici del calibro di Archimede, Fibonacci e Fermat. Quello che Teodoro riteneva essere un mero strumento geometrico atto a dimostrare l’esistenza di quantità incommensurabili (infatti, dall’1 al 17, ci sono solo 4 numeri la cui radice quadrata è misurabile con esattezza: 1, 4, 9 e 16) diede nascita allo studio di una delle figura più onnipresenti nella natura: in botanica, le spirali dettano le regole ottimali di posizione degli organi dei fiori dediti alla pollinazione; in fisica, gli uragani e le galassie si formano nel rispetto dei dettami delle dinamiche dei vortici; in chimica, la chiocciola è la figura ottimale della dispersione di un solido in dissoluzione in un liquido (tant’è che è proprio girando il cucchiaino intorno al bordo della tazza che si scoglie lo zucchero nel caffè il più rapidamente possibile). Tanto più la scienza avanza, tanto più si hanno prove che principi geometrici molto astratti sembrano spiegare con esattezza fenomeni naturali alquanto diversi fra loro.

La geometria sarebbe quindi l’alfabeto essenziale della realtà? Il senso più essenziale delle cose risiederebbe quindi nella loro forma? Ad Atene, sulla porta dell’Accademia era affissa questa interdizione: «Non entri chi non conosce la geometria» (...) e il concetto filosofico più caro a Platone, quello di “idea”, è etimologicamente — e probabilmente, non solo etimologicamente — affine a quello di “figura” o di “modello” (in quanto derivato dal verboιδειν, vedere). Dante Alighieri, quando volle differenziare la sapienza di Salomone da quella divina, invocando la monolitica certezza del teorema di Talete — «o se del mezzo cerchio far si puote, triangol sì ch’un retto non avesse» (Paradiso, XIII, 102) — fece appello all’ammonizione di san Tommaso nell’addentrarsi nei misteri di cui solo Dio è a conoscenza: «E questo ti sia sempre piombo a’ piedi, per farti mover lento com’uom lasso e al sì e al no che tu non vedi» (Paradiso XIII, 111-113)?

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 1/05/2019.