Lupus homini homo
di Carlo Maria Polvani
Se si prendessero a caso due uomini dei sette miliardi e mezzo che popolano la Terra, il loro patrimonio genetico sarebbe uguale al 99 per cento circa; se poi si comparasse il genoma di uno di loro con quello di uno scimpanzé — il pan troglodytes essendo la specie più rappresentativa del ramo evolutivo più vicino a quello dell’homo sapiens — la corrispondenza si attesterebbe intorno al 97 per cento; se si paragonasse infine, l’acido deossiribonucleico (Dna) nei cromosomi umani con quello contenuto nei cromosomi di un topo comune, la similitudine con il mus musculus supererebbe il 95 per cento.
Non è ancora del tutto chiaro perché dei patrimoni genetici sostanzialmente simili producano caratteristiche così diverse negli esseri viventi. Almeno per quanto riguarda i vertebrati superiori, questa osservazione sarebbe dovuta al fatto che solo una piccola parte del Dna (il cosiddetto “Dna codificante”) determinerebbe il fenotipo (l’insieme dei tratti osservabili), mentre il restante (il cosiddetto “Dna non codificante”) avrebbe altre funzioni. Questa ipotesi è corroborata da recenti ricerche comparative dei genotipi (la porzione del materiale genetico espresso in proteine) di specie diverse. Tali indagini sono di particolare utilità quando a essere comparate sono specie vicine fra loro, come lo sono, per esempio, il cane e il lupo, anche se, a essere precisi, il canis lupus familiaris è una sottospecie dal canis lupus, tant’è che membri di entrambi i gruppi possono incrociarsi producendo discendenti fertili. La minuscola divergenza genetica fra i cani e i lupi, che si attesta a 0,1 per cento circa del loro Dna, si deve per lo più al fatto che il lupo grigio fu la prima specie animale addomesticata dagli uomini, intorno a 30.000 anni fa.
La domesticazione di una specie animale è un percorso a tappe: in molti casi, inizia con il “commensalismo” — la propensione di alcuni animali di avvicinarsi agli insediamenti umani per nutrirsi degli scarti lasciati dagli uomini, come fa la columba livia (il piccione) — che permette la cattura di alcuni individui, i quali, domati sono sottoposti a una riproduzione selettiva in cattività indirizzata a fare emergere delle caratteristiche ritenute utili — l’orientarsi per tornare al nido, come fa una sottospecie della columba livia domestica, il piccione viaggiatore — nella loro discendenza, con la quale, nel tempo, gli umani stabiliscono dei legami sempre più stretti. Notando che sono poche le specie di carnivori addomesticate e che meno del 10 per cento delle specie di grandi erbivori hanno controparti domestiche (anche se la biomassa totale del bestiame supera quella di tutti gli altri mammiferi messi assieme), il professor Jared Diamond della University of California at Los Angeles ha proposto che una specie selvatica debba possedere alcuni tratti specifici per essere addomesticata con successo: una predisposizione al cambio della dieta; la capacità di riprodursi con tempi di gestazione simili o inferiori a quelli dell’uomo; un’indole prona alla modificabilità della reazione primaria del combattimento-o-fuga; e, possibilmente, una struttura sociale, anche se solo gregaria. Possedendo tutte queste caratteristiche, i lupi divennero i migliori amici dell’uomo in un tempo abbastanza ristretto, come lo confermano vari reperti archeologici fra i quali lo scheletro del “cane di Bonn-Oberkassel”, che fornisce la prova che dei cacciatori-raccoglitori di 14.000 anni fa prodigarono cure mediche al loro compagno a quattro zampe, riservandogli persino una sepoltura nella loro tomba di famiglia.
Difatti, le recenti mappature genetiche delle varie razze di cani confermano che esse si configurano in un cosiddetto “collo di bottiglia genetico” (ossia, delle variazioni ridotte, tipiche delle popolazioni isolate), il che lascia supporre che i lupi addomesticati furono sottoposti a una selezione ben più intensiva di quella naturale, impostagli dalle necessità e, a volte, dai capricci, dei loro padroni. Per merito o per colpa degli umani, i cani sono oggi i mammiferi con la più grande forchetta di variazione di alcuni tratti fenotipici – quali la massa corporea (il peso di un San Bernardo può raggiungere 100 volte quello di un Chihuahua) — e, poiché il loro patrimonio genetico fu ereditato quasi unicamente dal lupo grigio visto che altri canidi – anche molto vicini quali il coyote (canis lupus latrans) — vi hanno contribuito pochissimo, le divergenze genotipiche fra lupi e cani rilevate in 500 geni circa possono essere collegate a precise differenze di morfologia e di comportamento inerenti alla domesticazione.
Rispetto ai lupi, i cani, per esempio, possono assumere alimenti contenenti l’amido (probabilmente fornitegli dall’uomo, principalmente dopo lo sviluppo dell’agricoltura) e il loro metabolismo dell’adrenalina è stato modificato in modo da renderli compagni giocosi (e soprattutto, meno diffidenti dei loro progenitori selvatici). Ma forse, la mutazione genetica apparsa nei lupi domestici che stupisce di più è quella conosciuta con il nomignolo di puppy eyes o «occhioni da cucciolo». Diversamente dai lupi, i cani possiedono nelle loro arcate sopracciliari il muscolo anguli oculi medialis che non offre alcun vantaggio competitivo per la sopravvivenza, senonché permette loro, specialmente quando inclinano la testa di una trentina di gradi, di fissare gli occhi degli uomini imitando espressioni antropomorfe. Recenti studi hanno dimostrato che più è sostenuto lo sguardo tra un padrone e il suo cane, più i livelli di oxitocina (l’ormone collegato con l’allattamento che stimola la creazione di legami affettivi) aumentano sensibilmente nel cervello di entrambi, specialmente quando la comunicazione visiva è accompagnata da stimoli tattili e verbali (il padrone che accarezza o scuote la testa del suo cagnolino pronunciando espressioni infantili personalizzate del tipo: «Bravo il mio Fido! Buono il mio Fido!»).
Questa complicità fra le due specie oramai iscritta a livello genetico, che va ben aldilà del fenomeno della cosiddetta “convergenza evolutiva” — che si verifica quando specie diverse sviluppano soluzioni simili per fare fronte a sfide ambientali analoghe — spiegherebbe in parte il ruolo significativo del cane nell’immaginazione collettiva degli umani, sottolineata nell’incantevole opuscolo del filosofo francese Mark Alizart, Chiens (Presses Universitaires de France, 2018). Alizart — che è stato responsabile della programmazione culturale del Centre Georges Pompidou e direttore del Palais de Tokyo di Parigi — propone un libro magistralmente bizzarro che rintraccia, in brevi capitoli, la visione del cane nelle più svariate culture. Spaziando nelle mitologie classiche — da Xoloitzcuintle (il cane sacro azteca associato a Xolotl, dio del tramonto, gemello di Quetzalcóatl, il dio serpente piumato e signore dell’alba), al poema epico indiano Mahabharata (alla fine del quale, Yudhisthira dimostra la sua purezza rifiutandosi di salire sul carro diretto in paradiso perché non accompagnato dal suo cane, incarnazione della legge cosmica del dharma) — e raccogliendo elementi dalla letteratura (l’Œdipus Rex, il Faust), della pittura (Il convito in casa di Levi, ironicamente commissionato al Veronese dai domenicani) e dalla scienza (la costellazione Canis Major con Sirio, l’astro più rifulgente nella volta stellata), Alizart dimostra l’influsso innegabile che il cane ha avuto nel dare all’uomo una coscienza di sé e del mondo. Il geniale saggio ha inoltre un risvolto provocante nel riprendere in sottofondo una teoria reminiscente delle tesi di Konrad Lorenz (1903-1989), secondo le quali gli uomini sarebbero riusciti a umanizzare i cani grazie a un processo co-evolutivo.
Infatti, il padre dell’imprinting — che sosteneva che «come l’origine dell’uomo è passata attraverso la condizione animale, così la chiave della comprensione dell’uomo passa attraverso la conoscenza degli animali» — rimase affascinato dalla relazione fra i lupi addomesticati e gli uomini tanto da scrivere nel 1950, il classico So Kam der Mensch auf den Hund («E l’uomo incontrò il cane»), nel quale attribuiva ai cani facoltà superiori quali i sentimenti e la coscienza. Se avesse potuto conoscere i risultati degli studi genetici attuali, il Premio Nobel austriaco avrebbe visto in loro una conferma della teoria della “epistemologia evoluzionistica” — di cui era stato promotore con Donald Campbell (1916-1996) e Karl Popper (1902-1994) — secondo la quale, l’evoluzione degli esseri viventi è un lungo processo di assimilazione della conoscenza, come da lui stesso brillantemente suggerito nel suo capolavoro del 1972, Die Rückseite des Spiegels («L’altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza»). La storia degli uomini tende a confermare la massima homo homini lupus; ma quella degli effetti genetici della domesticazione dei canidi farebbe apparire l’altra faccia dello specchio, quella dell’uomo che ha anche saputo riconoscere il meglio di sé nel lupo, lupus homini homo. Chi ha la fortuna di godere della compagnia di un quadrupede scodinzolante dovrebbe essergli grato per ricordargli che il desiderio di interagire con il mondo e non la brutale volontà di sopravvivenza potrebbe essere la principale finalità iscritta nella natura animale.
Pubblicato in L'Osservatore Romano, 16/01/2020