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Scienziati si nasce o si diventa?

di Carlo Maria Polvani

Ogni tre anni, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) pubblica un’indagine di valutazione del livello d’istruzione di adolescenti provenienti da settantadue paesi conosciuta con il singolare acronimo Pisa (Programme for International Student Assessment). I Pisa finora pubblicati evidenziano uno stridente divario di genere (gender gap); sebbene i ragazzi non di rado ottengano punteggi statisticamente inferiori a quelli delle loro coetanee per quanto riguarda la lettura, i loro risultati sono spesso superiori in matematica e nelle scienze. Trovando conferma in altri studi, questa osservazione è stata denominata Stem [Science, Technology, Engineering, Mathematics] gender gap.

Volendo contrastare questo specifico divario di genere (che alla fine dei conti contribuisce al perpetuarsi del netto predominio maschile in alcune professioni ben remunerate quali l’ingegneria e l’informatica), governi e organismi internazionali hanno cercato di evidenziarne le cause. Oltre ai fattori derivati dalla discriminazione culturale (per esempio, i genitori che non investono nell’educazione di una figlia, indirizzandola piuttosto verso il matrimonio), dagli stereotipi fondati su differenze biologiche (per esempio, la possibile predisposizione dei ragazzi per la cognizione geometrico-spaziale), dalle dinamiche di gruppo perverse (per esempio, la “sindrome pecora nera”, dove una schiacciante maggioranza maschile ostracizza la mera presenza femminile, e la “sindrome ape regina”, dove una figura femminile in autorità emargina le altre donne pur di aumentare la sua popolarità con i subalterni), è apparso un fattore collegato al metodo d’insegnamento delle scienze e in particolare, della fisica. Sembrerebbe infatti, che alunni affetti da difficoltà di rendimento scolastico, anche passeggere, siano tanto più inclini a perdere interesse nella fisica, quanto più questa materia è insegnata a partire da nozioni astratte.

Alcuni pensano di superare questo ostacolo introducendo sistemi pedagogici più progressivi — come quello che ha permesso a Singapore di detronizzare la Finlandia al primo posto dei risultati in matematica degli ultimi Pisa — che, grazie a una didattica a tappe ben definite, portano lo studente prima a misurarsi con una realtà concreta, poi a verbalizzarne il senso con parole proprie, e infine ad assimilarne i principi astratti. Importanti centri di studio come la Notre Dame University hanno persino introdotto metodi di insegnamento delle scienze che comprendano sempre dei progetti pratici e divertenti ai quali gli alunni si possano inspirare.

Benché non si abbiano ancora dati certi sull’efficacia di tale approccio, esso può essere sperimentato sfogliando l’ultimo libro di James Kakalios, La fisica nelle cose di ogni giorno (Torino, Einaudi, 2018, pagine 200, euro 9,99). In esso, al docente dell’università del Minnesota riesce il gioco di prestigio d’introdurre chiunque si consideri poco portato per le materie scientifiche ai grandi principi della fisica e della chimica, spiegando con parole semplici il funzionamento di apparecchi che compongono la nostra vita quotidiana. Due ottimi esempi del modo di procedere del docente statunitense sono forniti dallo spazzolino elettrico ricaricabile e dal frigorifero.

In pochi si chiedono come sia possibile ricaricare uno spazzolino elettrico dotato di batteria interna riponendolo sulla sua base attaccata alla presa a muro della corrente elettrica, visto che esso, dovendo entrare in contatto con l’acqua, è ricoperto da materiale isolante. La spiegazione è che l’elettricità proveniente dalla spina non passa direttamente alla batteria, ma è utilizzata per creare una differenza di campo magnetico fra due bobine all’interno del manico che funge, a tutti gli effetti, da trasformatore.

Kakalios scrive che il meccanismo che lega il magnetismo all’elettricità è propriamente chiamato induzione — quella stessa induzione che contraddistingue i fornelli e le padelle d’ultima generazione — ma si guarda bene dall’entrare nel calcolo infinitesimale che coniugando la legge di Michael Faraday (1791-1852) alle equazioni di James Maxwell (1831-1879) e alla forza di Hendrik Lorentz (1853-1928) costituisce una delle più grandi scoperte scientifiche di tutti i tempi, e cioè la messa in relazione di due forze fisiche, l’elettricità e il magnetismo, fino ad allora ritenute indipendenti.

Faraday, oltre a esser stato con Charles de Coulomb (1736-1806) il padre dell’elettromagnetismo, fu anche un brillante chimico e, quando riuscì a liquefare il gas d’ammoniaca portandolo sotto i –33° Celsius, diede un contributo allo sviluppo di un altro elettrodomestico, il frigorifero. Produrre calore è relativamente facile; basta iniziare un qualsiasi tipo di combustione (che Kakalios evita volentieri di chiamare con il suo nome esatto di ossidoriduzione esotermica); molto più difficile, è produrre il freddo. La fisica nelle cose di ogni giorno svela che esso può essere generato per evaporazione. Un gas — curiosamente, l’ammoniaca sta tornando in auge dopo che si sono constatati gli effetti devastanti del freon sull’ozonosfera — viene compresso in un circuito chiuso fino a diventare liquido; gli viene poi permesso di tornare allo stato gassoso in una parte del circuito dove, potendo espandersi, assorbe il calore esterno mentre evapora. La parte del circuito dove il gas viene compresso si trova all’esterno del frigo e per questo, la serpentina dietro i frigoriferi si riscalda; quella dove il gas si espande è invece in contatto con l’interno del frigo, e per questo l’aria dentro il frigo, dovendo cedere calore, si raffredda.

Ovviamente Kakalios si astiene dal menzionare che la spiegazione del fenomeno in tutta la sua complessità dovrebbe contemplare i lavori di Hermann von Helmholtz (1821-1894) e Willard Gibbs (1839-1903) che, partendo dal principio della disuguaglianza di Rudolf Clausius (1822-1888), definirono le due funzioni di stato che prevedono la spontaneità e la reversibilità dei processi termodinamici — la termodinamica è il ramo della fisica che studia il rapporto fra il calore, l’energia e il lavoro — sia a volume costante valutando l’energia libera di Helmholtz, sia a pressione costante misurando l’energia libera di Gibbs.

Sicuramente, citare teoremi di personaggi ottocenteschi per spiegare il raffreddamento per evaporazione risulta meno attraente che additarne spassose illustrazioni come quella fornita dai cani quando abbassano la loro temperatura corporea ansimando con la lingua a penzoloni intrisa di saliva. Ed è per questo che lo stesso Kakalios, nel 2007, aveva pubblicato, sempre con la Einaudi, l’incantevole volume La fisica dei supereroi, nella quale si era sbizzarrito a illustrare i principi della meccanica newtoniana che permettevano a Superman di volare a velocità supersoniche e quelli della meccanica quantistica che consentivano a Flash di attraversare muri e pareti.

A pensarci bene quindi, la questione più generale riguarda il possibile ruolo del divertimento nei processi di apprendimento; e questa questione è tanto più attuale che l’accesso ai più svariati media ha creato negli alunni il fenomeno del media multitasking.

Nel 2010, la ong californiana Kaiser Family Foundation aveva pubblicato uno studio dal quale si evinceva che un adolescente medio riusciva a rimanere esposto per 7 ore e 38 minuti al giorno al contenuto di vari media d’intrattenimento (per esempio reti sociali, consolle di videogiochi, lettori mp3, e così via) grazie all’uso simultaneo di due o tre fonti di divertimento mediatico (per esempio, sfidare gli amici a un video-gioco in rete, mentre si ascolta la propria musica favorita e si scrivono messaggini alla fidanzatina).

Comportamenti come questi sembrano avere degli effetti alquanto nefasti sulla capacità di mantenere a lungo la concentrazione su un unico soggetto. Alcune indagini infatti, stimano la media della durata dell’attenzione (attention span) di un adolescente inferiore ai dieci minuti. La preoccupazione per le conseguenti difficoltà manifestate da tanti studenti nell’acquisizione del sapere è tale che, all’inizio dell’anno, la Francia si è dotata di un nuovo Conseil Scientifique de l’Éducation Nationale (composto da neurologi, psicologi, pedagoghi e sociologi, diretti da Stanislas Dehaene, membro della Pontificia Accademia delle Scienze), che, fra l’altro, ha ricevuto il mandato governativo di evidenziare quali siano i fattori benefici per i processi di apprendimento.

L’approccio ludico allo studio delle scienze sarà forse un giorno annoverato fra questi? E se anche così fosse, come sarà possibile insegnare tematiche che per la loro stessa natura richiedono di essere studiate in tutta la loro fredda astrazione quali sono, per esempio, la teoria delle stringhe (che concepisce l’universo come manifestazione di entità polidimensionali) o quella dei numeri trascendentali (scoperti da Joseph Liouville, 1809-1882), rispettivamente rielaborate dai luminari Joseph Polchinski (1954-2018) e Alan Baker (1939-2018), appena scomparsi la settimana scorsa?

Alquanto opportunamente, il sociologo canadese convertito al cattolicesimo Herbert Marshall McLuhan (1911-1980) — che nel celebre trattato Understanding Media: The Extensions of Man pubblicato nel 1964 coniò le espressioni iconiche the medium is the message e the global village — riteneva, prevedendo gli effetti della rivoluzione digitale, che il «sovraccarico informativo» al quale siamo sottoposti è la prova che «innumerevoli confusioni e un senso di disperazione emergono necessariamente nei periodi di grandi trasformazioni tecnologiche e culturali».

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 15/02/2018